SE IL DEF CERTIFICA IL FALLIMENTO DEL GOVERNO E METTE UN MACIGNO (L’IVA) SULLA PROSSIMA MANOVRA DI BILANCIO LA FINE DELLA LEGISLATURA àˆ VICINA


Mai Documento di economia e finanza fu così istruttivo. Il Def 2019, sigla che ormai sta scalando la classifica degli acronimi più conosciuti, è insieme la lapide sul fallimento del governo Conte e della maggioranza che lo sostiene, la croce posta sopra il contratto di governo e la politica economica che ne è discesa, e lo snodo imprescindibile da cui si dovrà passare dal 27 maggio in poi, quando il passaggio politico del voto europeo si sarà consumato e si dovrà scegliere tra dare un nuovo inizio alla legislatura o metterci fine. Va dato atto al ministro Tria di aver posto, con quella che è stata chiamata “operazione verità”, le premesse per sgombrare il campo da errori, bugie ed equivoci sulle reali condizioni di salute sia dell’economia che della finanza pubblica.

I numeri del Def, infatti, certificano una crescita tendenziale del pil quasi azzerata (+0,1%), come in effetti è considerato che il piccolo rimbalzo della produzione industriale registrato a febbraio può far sperare che il primo trimestre non abbia il segno meno e si riveli credibile la stima di un decimo punto in più rispetto alle previsioni più negative che ipotizzano un 2019 a -0,1% o addirittura a -0,2%. Altrettanto realistica è la previsione programmatica della crescita contenuta nel Def, cioè quella che il governo immagina di indurre con le sue politiche: +0,2%. Questo significa che la differenza tra come marcia e come si pensa di far marciare l’economia è solo un decimo di punto. Ragionevolmente, visto che tra quanto si è fatto fin qui e quanto si è detto che s’intende fare c’è ben poco che possa mettere le ali al prodotto interno lordo.

Ma anche masochisticamente, considerato che ciò significa valutare pressoché zero l’apporto che, da un lato, “quota 100” e reddito di cittadinanza, e dall’altro, il decreto crescita e lo sblocca cantieri, possono dare alla crescita del pil. Cosa vera, sia chiaro – e per questo va apprezzata la sincerità di Tria e di coloro che al Tesoro hanno redatto il documento programmatico – ma ammetterla suona come una inappellabile dichiarazione di fallimento, per quel che si è fatto e per quello che si pensa l’agibilità politica di questa maggioranza possa consentire di fare nei prossimi mesi. Con ciò, come ha efficacemente fatto notare Giorgio La Malfa, o il governo ammette che le sue politiche sono del tutto inadeguate rispetto alla necessità di crescita economica – consacrata nelle stesse dichiarazioni programmatiche iniziali, a giugno scorso – oppure si assume la responsabilità di sostenere che l’andamento tendenziale sarebbe ancora peggiore di quello che oggi scrive e che con le proprie misure possa riuscire a evitare il peggio. Ma se dovesse scegliere questa seconda “narrazione”, dovrebbe spiegare perché il ciclo economico italiano, già così più basso di oltre un punto rispetto alla media Ue (che noi concorriamo ad abbassare), marchi una differenza ancor più larga con l’eurozona, con ciò ammettendo implicitamente che è falsa la semplicistica spiegazione che viene fornita da Di Maio e Salvini, e cioè che l’attuale fase recessiva è dar far risalire esclusivamente al rallentamento europeo e mondiale. Il governo aveva esordito parlando per quest’anno di una crescita del pil dell’1,5%, poi l’aveva ridotta all’1%, ora è sceso allo 0,2%

Ma il Def di Tria – che evidentemente i due dioscuri della maggioranza hanno approvato senza capire cosa ci fosse dentro – è ancor più importante dal lato della finanza pubblica per le premesse “vincolanti” che mette circa la prossima manovra di bilancio. Ed è evidente, seppure in modo induttivo, che il Def ci porta dritti dritti all’aumento dell’Iva, per il programmato ammontare di 23 miliardi nel 2020 e di 28 nel 2021. Si dice infatti (a pag. 44 del documento redatto dal Mef) che “la dinamica delle entrate tributarie risente delle disposizioni che hanno aggiornato dal 2020 gli aumenti automatici dell’Iva”. Ma ancor più chiaramente la necessità di ottemperare all’obbligo delle clausole di salvaguardia europee facendo aumentare le aliquote Iva per un gettito complessivo di 23,1 e 28,7 miliardi, la si deduce da due “numeretti” (come immaginiamo che Di Maio e Salvini chiamino queste bazzecole): il dato del rapporto deficit-pil e quello deflatore del pil. Sono termini tecnici, ma poi non così complessi da risultare incomprensibili. Vediamo.

Il prossimo anno il Def prevede un deficit al 2,1% del pil (nel precedente Documento era 1,8%), che poi scenderà all’1,8% nel 2021 (era 1,6%). Piccolo particolare. Per arrivare alla stima di un indebitamento all’1,8% (ora aggiornata al 2,1%) e dell’1,6% (ora 1,8%), il governo aveva già previsto l’aumento delle aliquote Iva. Il deficit, infatti, si ferma a questi livelli proprio perché è previsto un gettito aggiuntivo di quasi 52 miliardi in due anni. Altrimenti, visto che da sola l’Iva vale 1,3 punti di pil, il deficit balzerebbe almeno al 3,1%, e anche di più se la previsione sulla crescita dovesse rivelarsi sbagliata per eccesso. Costringendo così Bruxelles ad aprire una procedura d’infrazione per deficit eccessivo. A conferma di ciò c’è poi una frase (a pag. 39) relativa all’andamento dell’inflazione: “nel 2020 e nel 2021 la crescita dei prezzi risente dell’aumento delle aliquote Iva”. E anche in questo caso i numeri contenuti nel Def sorreggono questa affermazione. Infatti, l’inflazione al netto delle politiche di bilancio è prevista all’1% – in linea con tutta Europa – ma nelle tabelle sia a livello tendenziale che programmatico viene indicata al 2%, come si evince vedendo il deflatore del pil, cioè quello strumento che consente di “depurare” la crescita dall’aumento dei prezzi e quindi renderla al netto dall’inflazione.

È evidente che quel punto di differenza sia dovuto all’Iva, che fa aumentare i prezzi e (a parità di consumi) e l’inflazione. E il fatto che il 2% sia anche programmatico, significa che non è intenzione del governo – o almeno di chi ha redatto il Def – rinunciare a quel gettito in più derivante dall’Iva. Anche perché se si dovesse sostituire l’intervento calmieratore del deficit con altre manovre che non sono l’aumento dell’Iva – come, per la verità, è ipotizzato nel Def, ma così genericamente da far pensare che Tria l’abbia inserita, questa ipotesi alternativa, per pura prudenza politica – ammesso e non concesso che si possa arrivare a compensare i 52 miliardi nei due anni, si tratterebbe di interventi privi di quella ricaduta inflattiva che invece è messa nero su bianco nel Def. Infine, senza l’aumento dell’Iva l’inflazione non potrebbe salire al 2% e il deficit schizzerebbe al 3,1%, cosa che porterebbe il rapporto debito-pil nel 2020 dal 132,6% al 133,3% (0,7 punti in più) anziché scendere, come previsto dal governo, al 131,3% (1,3 punti in meno).

Peggio c’è da sentirsi se poi si vuole introdurre quella che impropriamente è stata chiamata flat tax, la quale prevedendo ben sei classi di aliquote tributarie altro non sarebbe che una riformina fiscale, dal costo di 17 miliardi di minori entrate (se avesse le caratteristiche prevista dalla proposta leghista) che sarebbero recuperate attraverso l’aumento del pil e quindi del gettito solo nel giro di qualche anno, sempre che gli effetti reali sulla base imponibile non si rivelino negativi. Il che, nel combinato disposto del non aumento dell’Iva e dell’entrata in vigore della manovra fiscale, farebbe salire il deficit 2020 fino al 4,1 del pil. Allarme rosso.

Insomma, dall’Iva non si scappa. E, d’altra parte, è noto che l’aumento dell’imposta sui beni e servizi è uno dei punti dell’accordo fatto dal Governo con la Commissione Ue per evitare la bocciatura della prossima manovra finanziaria. Anche perché l’Iva è l’imposta sul cui gettito si basa il contributo annuale che gli Stati versano a Bruxelles. Ne consegue che se il gettito aumenta di 23 miliardi, i tanto odiati (dai gialloverdi) euroburocrati incassano dall’Italia, euro più euro meno, 230 milioni aggiuntivi. Motivo in più per non rinunciare a imporre all’Italia l’obbligo di far scattare quelle clausole di salvaguardia che negli anni passati – con governi più amici – si è lasciato che fossero compensate da altro.

Ma ancor più noto è che tutti gli esponenti del governo e dei due partiti che lo formano abbiano giurato e spergiurato, al grido “mai le mani nelle tasche degli italiani”, che né quello né qualunque altro prelievo fiscale sarebbe mai stato messo in atto. Ecco perché il passaggio della prossima manovra di bilancio diventa scottante e condizionerà come null’altro – risultato delle europee compresi – il prosieguo, o meno, della legislatura. Provare per credere.

Per ulteriori informazioni, consultate il sito www.terzarepubblica.it o scrivete all’indirizzo redazione@terzarepubblica.it

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