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RICERCA: ECCO IL REPORT SULLE VIOLAZIONI DEL NOSTRO PAESE, ASS.COSCIONI LO INVIERA’ ALL’ONU. AL VIA UNA MOBILITAZIONE DI SCIENZIATI, RICERCATORI E STUDENTI

· L’Italia investe solo l’1,3% del Pil in ricerca (3% l’obiettivo indicato dall’UE)

· Calano gli stanziamenti e gli investimenti: il nostro paese al di sotto della media dei paesi dell’OCSE e dell’UE, anche se i ricercatori nostrani producono il 4% dei contributi mondiali

Cappato: Ricercatori soffocati da proibizioni, burocrazia e mancanza di fondi, nel disinteresse della politica ufficiale”.

Nel giorno del 13esimo anniversario della morte di Luca Coscioni, la “sua” associazione ha presentato oggi per la prima volta il rapporto su “Lo stato della ricerca in Italia: libertà e finanziamenti” che nel mese di marzo verrà inviato all’ONU in occasione della presentazione, da parte del nostro paese, della relazione periodica sul rispetto degli obblighi internazionali derivanti dalla ratifica dei maggiori trattati internazionali in materia di diritti umani nel corso del 2019.

Quello presentato oggi è un documento di partenza, che verrà caricato nelle prossime ore sul sito dell’Associazione Luca Coscioni e potrà includere le integrazioni di scienziati e addetti ai lavori segnalate da qui a marzo, prima dell’invio all’ONU.

Da anni l’Unione Europea ha fissato al 3% del Prodotto Interno Lordo nazionale, l’obiettivo di investimenti pubblici sulla ricerca da raggiungere entro il 2020; Secondo l’ultimo rapporto del Consiglio Nazionale delle Ricerche, l’Italia investe solo l’1,3% del proprio PIL, posizionandosi al di sotto della media dei paesi dell’OCSE e dell’UE. Anche se il rapporto tra spesa in ricerca/ sviluppo e PIL è passato dall’1,0% del 2000 all’1,3%, la spesa per ricerca e sviluppo finanziata dal Governo è rimasta stazionaria – di poco superiore allo 0,5% del PIL – mentre gli stanziamenti del MIUR verso gli enti pubblici di ricerca sono scesi dai 1.857 milioni del 2002 ai 1.483 milioni del 2015.

Se si guarda al di fuori dei confini nazionali, in tema di studi scientifici lo scenario globale vede Stati Uniti e Cina ai primi posti (rispettivamente rappresentano il 26% e il 21% delle pubblicazioni globali secondo i dati forniti dalla National Science Foundation degli Stati Uniti all’inizio del 2018), il contributo italiano ha comunque prodotto buoni risultati passando dal 3,2% al 4% della quota mondiale. Gli USA e i paesi europei, poi, producono più studi nelle scienze biomediche e sono i più ripresi dalla comunità scientifica globale, mentre la Cina con le sue scoperte oggi originali e innovative è leader nella ricerca ingegneristica.

A partire da oggi, ogni 20 febbraiodata in cui ricorre l’anniversario della morte di Luca Coscioni– l’Associazione presenterà il suo rapporto sullo stato della ricerca, con l’intenzione di denunciare la situazione attuale e motivare l’intera comunità scientifica per far sì che il lavoro svolto negli ultimi anni diventi uno strumento di monitoraggio continuo e aperto al contributo di tutti, scienziati, ricercatori e studenti, con lo scopo di promuovere e proteggere il diritto alla ricerca nel nostro paese.

“Negli anni scorsi, e con successo, l'Associazione Luca Coscioni ha attivato giurisdizioni nazionali, regionali e internazionali” ha dichiarato l'Avvocato Filomena Gallo, Segretario dell'Associazione “per conquistare diritti di scelta, e lo abbiamo fatto richiamando la necessità di affermare la legalità costituzionale quanto gli obblighi internazionali partendo dalla fecondazione assistita. La Corte costituzionale ci ha dato più volte ragione per quanto riguarda divieti italiani, la Corte InterAmericana sui diritti umani ha tenuto conto delle critiche costruttive che abbiamo rivolto alle proibizioni in Costa Rica su questioni simili. Con il Rapporto che invieremo all'ONU vogliamo sistematizzare ulteriormente questo nostro lavoro continuando a chiamare a raccolta la comunità scientifica per un impegno riformatore permanente”.

Il lavoro dell’Associazione Luca Coscioni, che verrà discusso dalle Nazioni Unite nel secondo semestre dell’anno, intende offrire riforme legislative e di approccio politico come l’istituzione di un’Agenzia Nazionale della Ricerca che ancora manca in Italia e l’aumento delle risorse stanziate per la ricerca in rapporto con il PIL nazionale, per far sì che l’Italia possa tornare a poter competere in Europa e nel mondo in un campo in cui ha sempre detenuto primati.

“La ricerca italiana è soffocata da proibizioni, burocrazia e mancanza di fondi, nel disinteresse della politica ufficiale” ha denunciato Marco Cappato, Tesoriere dell'Associazione. “E' tempo che siano innanzitutto gli scienziati, i ricercatori e gli studenti a mobilitarsi proponendo soluzioni. Dai divieti clericali su embrioni e genoma al fallimento dell'obiettivo del 3% di spesa per ricerca in rapporto al PIL, passando per il clientelismo politico delle baronie accademiche, è tempo che siano gli stessi ricercatori ad opporsi al declino della ricerca, organizzando una resistenza che parta dalla conoscenza. Il “Rapporto sullo stato della ricerca italiana” che da quest'anno presenteremo ogni 20 febbraio e che inviamo alle Nazioni Unite è in realtà uno strumento di monitoraggio permanente -aperto al contributo di tutti: dal grande scienziato al giovane studente – e di denuncia degli attacchi alla scienza, che sono attacchi alla qualità della vita di tutti i cittadini”.

APPROFONDIMENTO

Il rapporto “Lo stato della ricerca in Italia: libertà e finanziamenti”

A cura di Simone Penasa

Sulla spinta del costante sviluppo delle conoscenze e applicazioni in ambito medico rese possibili dall’innovazione tecnologica, la natura del rapporto tra scienza e diritto risulta determinante nel momento in cui sia necessario assumere decisioni di natura politico-legislativa. Un approccio normativo fondato sul principio di ragionevolezza scientifica appare un elemento necessario, seppur non esclusivo (in quanto si deve affiancare e non sostituire a decisioni di carattere valoriale o di altra natura), al fine di favorire anche la legittimità delle leggi approvate in tale ambito: un processo legislativo aperto al contributo, spesso decisivo, anche della comunità medico-scientifica, sulla scorta di esperienze ormai consolidate a livello comparato (Regno Unito, Francia); un testo legislativo strutturato in modo da consentire una sua adattabilità al costante sviluppo medico-scientifico che caratterizza l’ambito biomedico; scelte politiche che riconoscano e garantiscano uno spazio di autonomia decisionale riservato alle persone direttamente coinvolte (il paziente, il medico).

A cura di Ludovica Poli

Il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali impone agli Stati parte, inclusa l’Italia, l’obbligo di dare piena attuazione ai diritti ivi previsti, tra cui rientrano il diritto alla salute (art. 12) e il diritto alla scienza (art. 15).

Per come disciplinato dal Patto, il diritto alla scienza include, oltre al diritto di godere dei benefici del progresso scientifico e delle sue applicazioni, un diritto di accesso alle conoscenze scientifiche attraverso la divulgazione e la formazione, e il diritto di partecipare allo sviluppo scientifico non solo in termini di libertà di ricerca per gli scienziati, ma anche come “opportunità per tutti di contribuire all'impresa scientifica”.

Tuttavia, se da una parte, il diritto di ogni individuo “a godere delle migliori condizioni di salute fisica e mentale” attendibili ricomprende una chiara, se pur aperta, gamma di libertà e diritti, incluso quello a non essere sottoposto a trattamenti sanitari senza il proprio consenso, il significato e l’ambito di applicazione dell’art. 15(1b) – diritto al godimento dei benefici del progresso scientifico e delle sue applicazioni – è ancora oggetto di discussione.

L’auspicio è che, anche sulla base del Commento generale per l’interpretazione dell’art. 15(1b) attualmente in fase di lavorazione presso il Comitato sui diritti economici, sociali e culturali, l’Italia possa intervenire sullo stato della ricerca e garantire il rispetto, la protezione e il godimento del diritto alla scienza – e della salute – come previsto dagli strumenti internazionali.

Avanzamento scientifico, diritti umani e biologia umana

A cura di Simone Penasa

Nonostante il decisivo e sistematico intervento prodotto dalla giurisprudenza (di merito, costituzionale ed internazionale) al fine di ricondurre a compatibilità con i principi e diritti costituzionali la legge 40 del 2004 in materia di procreazione medicalmente assistita (requisiti di accesso, fecondazione eterologa, diagnosi genetica preimpianto, consenso), restano rilevanti elementi di criticità sia a livello di impianto legislativo sia a livello di effettivo accesso alle prestazioni rese lecite dall’intervento giurisprudenziale. In particolare, dal punto di vista della garanzia dell’accesso effettivo e in condizioni di parità su tutto il territorio nazionale alle prestazioni connesse alle tecniche di PMA, occorre sottolineare le questioni della disponibilità di gameti ai fini di donazione a terzi a scopi riproduttivi (fecondazione eterologa) e dell’accesso effettivo a tale tecnica e della possibilità di accedere alla diagnosi genetica preimpianto (da ultimo, l’ordinanza del Tribunale di Milano del 17 aprile 2017; Tribunale Torino, ottobre 2018). Resta inoltre aperta la questione relativa al divieto assoluto di ricerca con embrioni e al correlato divieto di donazione di embrioni a tal fine (cfr. in tal senso la sentenza Parrillo c. Italia della Corte EDU), che pone l’Italia in una posizione di isolamento nel panorama europeo e comparato. Per evitare che il canale giurisdizionale continui ad essere il principale (quando non esclusivo) strumento di accesso effettivo alle tecniche di PMA, risulta opportuno un intervento legislativo di riforma complessiva della legge 40 del 2004, anche alla luce delle indicazioni (ad esempio in materia di accesso delle coppie portatrici di malattie geneticamente trasmissibili e di diagnosi genetica preimpianto, sentenza n. 96/2015) della Corte costituzionale.

A cura di Ida Parisi

La legge 40/2004 reca, all’art. 12, comma 6, un espresso divieto in materia di Gestazione Per Altri, penalmente sanzionato con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro.

A causa di tale severità normativa, numerose sono le coppie che decidono di coronare il loro sogno e di intraprendere questo percorso all’estero, nel rispetto della legge locale, nonostante le incertezze e i dubbi sulle conseguenze derivanti da tale scelta.

Tra le domande più ricorrenti, le seguenti: quali sono i rischi, ove esistenti, in cui è possibile incorrere al rientro in Italia? Qual è lo status riconosciuto al minore, una volta rientrato nel nostro Paese? Sarà possibile godere, anche in Italia, della doppia maternità o della doppia paternità riconosciuta all’estero?

Per trovare risposta a tali interrogativi basta analizzare i dati relativi ai procedimenti giudiziari (di varia natura) che sono stati avviati, spesso a seguito delle segnalazioni alle Autorità Italiane (in primis la Procura della Repubblica) che i Consolati e le Ambasciate Italiane all’estero hanno effettuato, in caso di presentazione di certificati di nascita e di richiesta di emissione di idonei documenti di viaggio per l’ingresso in Italia dei minori, avanzata da soggetti italiani.

E, infine, ci si chiede: qual è l’atteggiamento della politica italiana?

Regolamentazione vs. Proibizionismo è la risposta; infatti, sempre più acceso è il dibattito tra chi ritiene che regolamentare tale fenomeno con una legge ad hoc possa servire a ridurre pericoli e abusi, così aumentando la tutela dei soggetti coinvolti e chi crede, invece, che l’arma del proibizionismo sia quella migliore per cancellare, del tutto, questo fenomeno.

A cura di Ludovica Poli

L’importanza del rispetto delle scelte riproduttive attiene ad una dimensione di tutela di diritti umani fondamentali. In Italia, nonostante l’aborto terapeutico sia previsto e garantito dalla L. n. 194 del 1978, allorché la prosecuzione della gestazione costituisca un pericolo per la salute fisica o psichica della donna, l’accesso all’IVG risulta nella pratica troppo spesso ostacolato.

Un primo problema riguarda il numero dei medici obiettori e della diffusa prassi delle ‘obiezioni di struttura’.

Sulla questione e sulla sua incidenza sul godimento dei diritti fondamentali si sono soffermati, tra gli atri, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa e il Comitato dei Diritti Economici, Sociali e Culturali, mentre con riferimento alla specifica condizione italiana, hanno espresso preoccupazione il Comitato per i diritti umani ed il Comitato europeo dei diritti sociali.

Una seconda questione concerne le modalità attraverso cui l’aborto terapeutico viene praticato. L’aborto farmacologico, infatti, è scarsamente applicato in Italia (al contrario della maggioranza dei paesi europei) ed è praticato in regime di ricovero ospedaliero, con un inutile aggravio delle spese a carico del SSN. Questa prassi non solo è contraria all’art. 15 della L. 194 (che raccomanda “la promozione delle tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l’interruzione della gravidanza”), ma si pone in violazione del diritto alla salute riproduttiva, come precisato dal Comitato CESCR nel General Comment n. 22 del 2016: “la mancanza o il rifiuto di includere le più recenti innovazioni tecnologiche tra i servizi per la salute sessuale e riproduttiva, come l’aborto farmacologico, (…) danneggia la qualità dell’assistenza sanitaria”.

Infine, è più che mai indispensabile riconoscere che lo strumento più efficace per ridurre l’accesso all’IVG è un agevole e diffuso accesso alla contraccezione, con particolare riferimento alla contraccezione d’emergenza, come implicitamente ammesso dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (Risoluzione n. 1607 del 2008).

A cura di Giulia Perrone

A più di un anno di distanza dall’entrata in vigore della legge n. 219/2017 “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, la disciplina presenta notevoli lacune sul piano applicativo. L’emanazione del decreto con cui il Ministero della Salute avrebbe dovuto stabilire le modalità di registrazione delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT) non è ancora avvenuta, nonostante il termine del 30 giugno 2018 previsto dalla legge di bilancio pluriennale 2018-2020 a fronte di uno stanziamento di due milioni di euro per l’istituzione di una banca dati. Al medesimo scopo, e in base alla legge di bilancio 2019, sarebbero destinati altri 400 mila euro. La mancanza di campagne informative e di una organizzazione concreta per la raccolta e possibilità di conoscenza a terzi delle DAT ostacola in concreto l’esercizio del diritto traducendosi in una possibile violazione del diritto alla vita, alla salute e all’integrità della persona, della libertà di autodeterminazione, dell’identità personale e della dignità, così come sanciti dalla Costituzione e da strumenti europei e internazionali. Non solo. Nonostante una norma precedente alle stesse Dat che ha istituito il Fascicolo Sanitario Elettronico e che dovrebbe facilitare la conoscenza delle disposizioni effettuate – articolo 12 del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179 – ad oggi, solo 13 regioni su 20 hanno un fascicolo elettronico attivo e conforme a normativa, in altre è in sperimentazione, altre ancora non lo hanno attivato. Per un’analisi dei dati ufficiali, anche rispetto a quanto già riscontrato dall’Associazione Luca Coscioni, si attende la prima relazione annuale sullo stato di attuazione della legge prevista entro il 30 aprile 2019. Nel mentre, si auspica un intervento urgente da parte del Ministero della Salute finalizzato a definire le modalità di registrazione, raccolta e accesso delle DAT.

A cura di Giulia Perrone

Se, da una parte, la disciplina del 2017 riconosce il diritto del paziente capace di autodeterminarsi ad accettare o rifiutare anche i trattamenti “salvavita”, dall’altra la legge italiana vieta il ricorso all’eutanasia e punisce severamente ogni condotta agevolatrice finalizzata al suicidio altrui. Con l’ordinanza n. 207/2018, la Corte Costituzionale – che era stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. in seno al procedimento Cappato – ha sottolineato che, con riferimento alla sola condotta agevolatrice, il divieto assoluto di “Istigazione o aiuto al suicidio” sancito dall’art. 580 del codice penale non tiene conto di specifiche circostanze nate in seguito allo sviluppo delle scienze mediche e tecnologiche e dunque non immaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice è stata introdotta nell’ordinamento. Con tale ordinanza di incostituzionalità accertata ma non dichiarata, i giudici delle leggi hanno dato tempo al Parlamento di legiferare per colmare un vuoto esistente nel nostro ordinamento sino alla data del 24 settembre 2019, data in cui vi sarà una nuova discussione in Corte Costituzionale. A partire da marzo 2015, la sola Associazione Luca Coscioni ha ricevuto oltre 700 richieste non anonime di aiuto per poter accedere al suicidio assistito nei paesi esteri in cui è consentito. Si attende ora l’intervento del Parlamento, attualmente impegnato nella discussione discussione della proposta di iniziativa popolare «Rifiuto di trattamenti sanitari e liceità dell’eutanasia» depositata nel 2013 da Associazione Luca Coscioni, Radicali Italiani e altre realtà associative e attualmente sottoposta all’esame delle commissioni congiunte Giustizia e Affari Sociali.

Avanzamento scientifico, diritti umani e biologia verde

A cura di Vittoria Brambilla

Dal 2012 alle tecniche di miglioramento genetico delle piante si sono aggiunte le nuove tecniche basate sul sistema CRISPR. CRISPR può essere programmato per creare mutazioni utili nei genomi, in modo rapido e sicuro. Le mutazioni ottenute con CRISPR sono indistinguibili da quelle originate in modo naturale o indotte con tecniche in uso da decenni. La differenza tra una pianta ottenuta con CRISPR o con approcci tradizionali sta solo nel metodo. Le piante migliorate con metodi tradizionali possono andare in campo senza restrizioni, al contrario le piante CRISPR, secondo la sentenza della Corte di Giustizia Europea del 25 luglio 2018, sono da considerarsi come organismi geneticamente modificati (OGM) e sono quindi regolamentate come tali. Ma CRISPR e OGM hanno poco in comune, a parte essere ottenuti con metodi di laboratorio. Al contrario, le piante CRISPR non sono diverse dalle piante ottenute con mutazioni tradizionali, che possono essere coltivate liberamente. La sentenza della Corte di Giustizia interpreta la Direttiva 2001/18/CE che definisce OGM gli organismi “il cui materiale genetico è stato modificato in modo diverso da quanto avviene in natura” (art.2). Tuttavia le piante ottenute tramite mutagenesi tradizionale sono esonerate (art.3). Secondo la Corte di Giustizia Europea la mutagenesi tradizionale ha una “lunga tradizione di sicurezza”, che la rende più sicura rispetto alle tecniche più nuove. Ma, visto che anche gli OGM hanno ormai una lunga tradizione di sicurezza, perché non vengono esonerati anche questi dalla direttiva 2001/18/CE? Il 13 Novembre 2018, su richiesta della Corte di Giustizia Europea, un gruppo di esperti di alto profilo scientifico ha espresso un parere sulla sentenza del 25 luglio 2018. Gli esperti hanno esplicitamente invitato ad un riesame della definizione di OGM tramite la revisione della direttiva 2001/18/CE, che tenga conto dei dati scientifici e che possibilmente normi il prodotto e non la tecnica con il quale è stato fatto.

Avanzamento scientifico, diritti umani e sperimentazione animale

A cura di Graziella Messina

In Italia l’impiego di animali per fini scientifici è regolamentato dal Decreto legislativo 26/2014 che ha recepito la Direttiva n. 2010/63/UE. In base a questa norma, tutti i progetti di ricerca che contemplano l’impiego di animali vertebrati e di taluni invertebrati, come i Cefalopodi, devono essere autorizzati dal Ministero della Salute e portati avanti all’interno di stabilimenti utilizzatori autorizzati.

La norma è ovviamente tesa alla tutela del benessere di modelli animali usati per la ricerca di base e biomedica, il cui impiego deve essere giustificato attraverso la presentazione di un progetto al Ministero, coadiuvato dall’Istituto Superiore di Sanità come valutatore tecnico/scientifico, che hanno il compito di autorizzare o meno l’uso degli animali secondo le modalità descritte. Questa legge ha segnato un netto cambio di passo nel settore della sperimentazione animale e, di conseguenza, nella vita quotidiana dei ricercatori. Infatti, per quanto il D.Lgs 26/2014 abbia colmato un vuoto normativo non più accettabile, la modalità con la quale viene oggi applicata da parte degli Enti regolatori e valutatori sta seriamente compromettendo lo sviluppo della ricerca italiana in campo biomedico, con importanti e significative ripercussioni in termini di sviluppo scientifico ed economico per il paese. Ritardi nell’emissione dell’autorizzazione, mancate approvazioni non sempre giustificate, comunicazione inefficace e scarsa trasparenza nell’iter valutativo sono gli aspetti che stanno progressivamente indebolendo la ricerca, sia accademica che privata, italiana.

Accesso a servizi, beni e strutture sanitarie

A cura di Fabrizio Starace

Le condizioni del sistema di cura per la Salute Mentale, documentate dal Ministero della Salute e dall'analisi indipendente condotta dalla Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica, appaiono preoccupanti per diversi aspetti. Ad esso viene infatti destinato solo il 3,5% del budget della sanità, a fronte del 10% ed oltre di altri Paesi europei come Francia, Germania, Spagna, Regno Unito. Ciò avviene proprio quando tutte le statistiche indicano un incremento delle condizioni di disagio psichico nella popolazione, documentato dalle indagini ISTAT, dal CENSIS, dall’Osservatorio sul consumo degli psicofarmaci. I Servizi di Salute Mentale devono anche confrontarsi con bisogni nuovi e straordinariamente impegnativi: dalla gestione territoriale dei pazienti psichiatrici autori di reato, dopo la definitiva chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, alle condizioni di disagio psichico di utenti extra-comunitari, nei quali il malessere psichico si associa alle precarie condizioni esistenziali e sociali, alla vera e propria “epidemia nascosta” di persone che presentano contemporaneamente disturbi psichiatrici e abuso di sostanze.

I dati dei differenti sistemi sanitari regionali documentano inoltre intollerabili disuguaglianze di accesso ai Dipartimenti di Salute Mentale, e macroscopiche differenze nei processi di cura, che dovrebbero essere declinati secondo le migliori evidenze scientifiche e non con la “lotteria del codice postale”. In tal senso appare fondato il timore di chi paventa un accentuarsi di tali disuguaglianze col procedere del “regionalismo differenziato”, in assenza di una funzione centrale di indirizzo e verifica a garanzia dei Livelli Essenziali di Assistenza.

A cura di Gustavo Fraticelli

Il 25 agosto 2016, il Comitato sui diritti delle persone con disabilità in riferimento alla relazione in materia dell'Italia, ha espresso quanto segue:

  1. preoccupazione per le variazioni regionali in tutta Italia e l'accesso ineguale delle persone con disabilità ai servizi a seconda del luogo in cui hanno vissuto.

Hanno sottolineato la necessità di nominare una persona focale per i diritti delle persone con disabilità in ciascuna regione che faccia un monitoraggio sull’ assenza di discriminazioni e parità di trattamento in tutta la nazione.

2. Diane Kingston, esperta di commissione e relatrice per la relazione dell'Italia, ha esortato l'Italia a rivedere il sistema di supporto dell'amministratore per sostenere il processo decisionale, a riconoscere il linguaggio dei segni e a istituire un'istituzione nazionale indipendente per i diritti umani in linea con i principi di Parigi.

A distanza di 3 anni:

Nulla di quanto sopra evidenziato è stato effettuato.

Nel nostro paese inoltre manca una riforma della sanità che rispetti il principio di equità nell’accesso alle cure; l’applicazione piena della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità; la rimozione delle barriere architettoniche tramite il varo di politiche idonee alla conduzione di una vita indipendente e l’aggiornamento della lista dei Livelli essenziali di assistenza e del Nomenclatore tariffario degli ausili e delle protesi. Non è inoltre affermato il “diritto di firma” per chi è impossibilitato ad apporla manualmente. Si evidenzia che:

Il DECRETO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA 12 ottobre 2017. Adozione del secondo programma di azione biennale per la promozione dei diritti e l'integrazione delle persone con disabilità. (GU Serie Generale n.289 del 12-12-2017), oltre ad essere non realistico, non fa alcun cenno programmatico in adempimento alle importanti osservazioni del Comitato ONU delle persone con disabilità del marzo 2016, che tra l’altro, con particolare enfasi, rilevava che il nostro Paese è fortemente carente nella predisposizione di strumenti affidabili di monitoraggio/verifica circa l’effettiva applicazione delle Convenzione, evidenziando che l’Osservatorio Nazionale sulla condizione delle persone con disabilità – che è estensore del documento di questo Programma – non è quell’organo previsto dalla Convenzione, non possedendo i requisiti di autonomia, rappresentatività richiesti per essere il punto di contatto con il Comitato in riferimento ai principi di Parigi. Tale Programma accenna di sfuggita alle osservazioni del Comitato ONU nell’introduzione con relativo seguito fornito dal MAE al Comitato ONU delle persone con disabilità.

A cura di Alessandro Gerardi

In Italia, a fronte di una legislazione spesso pregevole o, comunque, apprezzabile, molto spesso le concrete condizioni di vita delle persone invalide sono al limite dell'accettabilità, al punto che molti esperti del settore sono arrivati a chiedersi se abbia ancora senso parlare di Stato di diritto per chi è diversamente abile. L'effettiva inclusione nella società e una diretta partecipazione alla vita attiva delle persone disabili – precondizione necessaria per sviluppare appieno la loro personalità – resta ancora un obiettivo nemmeno lontanamente raggiunto. La situazione di marginalizzazione e di mancata inclusione che si trovano a vivere quotidianamente le persone con disabilità, infatti, è il frutto di un orientamento fondato sulla discriminazione del “diverso” ancora molto radicato nella società e nelle istituzioni, che sempre più spesso relegano in una posizione di secondo piano la persona più debole in quanto possibile fonte di turbamento del benessere e della tranquillità della collettività. In una tale ottica, se si vuole concretamente far uscire tutte queste persone dalla “massa dei senza diritti”, occorre prima di tutto non avere riguardo ai diritti soltanto preannunciati nelle assise internazionali, ma garantire alle persone che presentano una qualche forma di disabilità la possibilità di fruire di condizioni minime per un'esistenza libera e soprattutto dignitosa dando con ciò piena attuazione alle disposizioni costituzionali di cui agli artt. 2 e 3 della Costituzione.

La situazione italiana nella produzione di cannabis terapeutica e ricerca clinica con sostanze psicotrope controllate

A cura di Tania Re e Marco Perduca

In Italia dal 2007 è possibile prescrivere prodotti a base di cannabis per una serie di condizioni fisiche. Dal 2014 a seguito di un accordo tra i Ministeri della Salute e della Difesa, lo Stabilimento Farmaceutico Militare di Firenze produce infiorescenze di cannabis per fini terapeutici (FM2); il fabbisogno stimato dal Governo nel 2018 era tra i 700 e i 1000 chili annui. Dal 2014 la cannabis è stata collocata in Tabella 2. Malgrado in Italia esistano centri di ricerca avanzata in ambito preclinico soprattutto sui cannabinoidi, come il CNR di Napoli, gli studi clinici, ovvero su umano, sono molto pochi, sebbene a partire dal 2014 nell’Ambulatorio dell’Ospedale Careggi, e poi in altre realtà ospedaliere, la cannabis terapeutica venga somministrata per alcune patologie successivamente inserite nel decreto del 9 novembre 2015. Le ricerche italiane fino ad oggi sono state realizzate grazie soprattutto alla buona volontà degli operatori sanitari coinvolti negli ambulatori che prescrivono cannabis terapeutica. Per il 2019 sono stati annunciati finanziamenti per indagini di vario genere stanziate direttamente da alcune Regioni.

Le altre sostanze psicotrope sono inserite nella Tabella 1 che al contrario della 2 contiene molte restrizioni per la produzione o la circolazione delle stesse. In Tabella 1 ci sono eroina, psilocibina, mescalina, cocaina, anfetamine, il cui possesso prevede severe sanzioni che non tengono in considerazione di un eventuale utilizzo terapeutico ma solo di quello esclusivamente personale o per fini di spaccio. Queste stesse sostanze strettamente controllate, in particolare la psilocibina, l’MDMA e la DMT, sono il focus di ricerche avanzate in istituzioni come l’Imperial College di Londra, la School of Medicine di New York, l’Ospedale Sant Pau di Barcellona. In alcuni casi, lo stato della ricerca ha superato la fase preclinica e gli studi in corsa mirano a evidenziare le proprietà terapeutica per patologie quali la depressione farmacoresistente, il distress dei pazienti oncologici, il disturbo post traumatico da stress (PTSD) e alcune dipendenze da sostanze. Il finanziamento di queste ricerche è per lo più privato o di enti no profit; nel Regno unito riceve anche contributi pubblici. In Italia non esistono ricerche né trial clinici per le sostanze contenute in Tabella 1, non per espresso divieto di legge ma per una serie di concause legate alla complicazione normativa dell’utilizzare sostanze stupefacenti sotto stretto controllo nazionale e internazionale.

Per quanto riguarda il diritto alla salute, l’Italia deve migliorare il sistema di raccolta dati relativi al reale fabbisogno nazionale di prodotti cannabinoidi o derivati dalla cannabis, incrementare la produzione nazionale, anche tramite partnership pubblico-privato; per quanto riguarda il diritto della scienza occorre prevedere studi sui prodotti a base di cannabis, a parte dalle varietà che l’Italia produce; per quanto riguarda infine il diritto alla scienza, l’Italia deve promuovere studi sulle altre sostanze controllate perché si possa godere di una più amplia gamma di offerta di terapie per varie condizioni ivi compresa l’offerta terapeutica a chi fa un uso problematico degli stupefacenti.

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