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LA PROTESTA DEL FRONTE (COMPATTO) DEI PRODUTTORI DI RICCHEZZA DOVREBBE INDURRE SALVINI E LA LEGA ALLA SVOLTA. PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI

Siamo al punto di svolta. Ci riferiamo, ovviamente, alla legge di bilancio e al braccio di ferro con l’Europa sulla minacciata procedura d’infrazione, il cui esito oscilla tra il tragico e il farsesco, ma anche, e forse soprattutto, alla svolta che sta maturando sul piano politico, grazie alla pressione – tanto inedita quanto straordinaria – del mondo produttivo.

La partita con Bruxelles sembrava destinata ad un mesto pareggio, con gli aggiustamenti apportati alla manovra sufficienti per indurre la Ue a rinfoderare le armi, ma insufficienti per fermare l’inesorabile marcia della nostra economia verso la terza recessione del secolo. Tuttavia, siccome un’exit strategy del genere, per giunta acchiappata per il rotto della cuffia, se da un lato allontanerebbe la procedura d’infrazione e abbasserebbe la temperatura dello spread, dall’altro farebbe fare al governo la figura del calabrache dopo aver sbandierato ai quattro venti – persino dal balcone di palazzo Chigi – che non solo l’Italia non sarebbe stata prona ai voleri della Commissione Ue e dei (non meglio identificati) burattinai europei che la muovono, ma avrebbe spezzato le reni a quegli affamatori, ecco che nel governo sono nuovamente scoppiati i mal di pancia di fronte ai risultati, inevitabilmente magri, che il compromesso negoziato da Conte e Tria mette sul tavolo. Salvini e Di Maio si alternano quotidianamente nel ruolo del pompiere e dell’incendiario, mentre a giorni alterni spuntano e si allontanano le dimissioni, spontanee o indotte, del ministro dell’Economia. In questa situazione è difficile fare previsioni, si sbaglia meno se ci si affida al lancio della monetina. Paradossalmente la stagnazione che rischia di trasformarsi in recessione offre al governo una via di fuga: una “circostanza eccezionale” che potrebbe indurre la Ue a concederci un supplemento di flessibilità. Di contro, il fatto che al nuovo round Roma-Bruxelles della settimana prossima il governo si presenti avendo fatto votare dalla Camera, e per di più con voto di fiducia, la manovra originaria già bocciata dalla Commissione, di certo non incrementa il suo già quasi esaurito tasso di credibilità negoziale. In tutti i casi l’esito di questa vicenda, fermo restando che ovviamente è preferibile quello dell’intesa che evita la procedura d’infrazione a quello della rottura, sarà comunque negativo per il Paese. Perché purtroppo la discussione in corso è sulle compatibilità numeriche della manovra, non sulla qualità dei suoi contenuti. I quali erano già con tutta evidenza inadatti alle necessità di sviluppo di un’economia maledettamente lenta fin dalla loro premessa, in sede di contratto di governo, ma ora lo sono a maggior ragione al cospetto della crescita sottozero e alla necessità, dunque, di imprimere una svolta radicale alla congiuntura.

Ed è proprio in questo quadro negativo, che genera sfiducia ma anche preoccupate reazioni, che sta maturando una svolta politica. E a determinarla è – per quanto possa apparire impossibile – l’italica borghesia produttiva. Proprio quella che Benedetto Croce avrebbe voluto “classe pensante”, così salda nei propri valori e consapevole di sé da essere in grado di guidare il paese perché capace di collocare il proprio tornaconto materiale dentro il supremo interesse generale, e che invece da sempre, e negli ultimi anni in particolare, ha abdicato, lasciando alle oligarchie politiche che si sono susseguite il comando del gioco, in cambio di qualche vantaggio corporativo ma soprattutto del soddisfacimento di una miriade di interessi particolari, non di rado ben oltre il lecito. Ebbene questa claudicante borghesia imprenditoriale, che fino a ieri si era lasciata disintermediare senza colpo ferire, si è finalmente svegliata e ribellata. Spaventata a morte dal populismo dilagante che scatena i peggiori istinti anti-industriali e di avversione alla modernità e alla competenza, di fronte alla prospettiva di passare da una crescita seppure stentata ad una decrescita impoverente – senza neppure la giustificazione, o l’alibi, di un mal comune come fu nel 2008 (crisi mondiale) e nel 2011 (crisi europea) – quello che è stato definito il “fronte del pil” ha deciso di ribellarsi, anche a costo di perdere il suo tradizionale status di “filo-governativo” per definizione. Così, dopo che l’assemblea di Assolombarda aveva dato la stura alla reazione degli industriali, inducendo la Confindustria nazionale ad abbandonare l’ambiguità e scegliere una crescente contrapposizione alle misure del governo pentaleghista, i tanti momenti di protesta che in breve tempo si sono susseguiti allargando il fronte all’intera platea delle categorie produttive, sono quindi culminati nella grande adunata di Torino di tutte le organizzazioni datoriali, unite in un inedito ma agguerrito “fronte del Sì”. Sì ad una modernizzazione infrastrutturale del paese, Tav in testa, priva di tabù ideologici; sì ad una manovra per la crescita e non per contrarre debito a carico di chi lavora per dare soldi a chi non lavora o vuol smettere di lavorare; sì ad un solido ancoraggio all’Europa e all’euro.

Ora alla catena della protesta dei produttori di ricchezza sta per aggiungersi un altro anello importante, la manifestazione programmata per il 13 dicembre a Milano dalla Confartigianato, destinata a sancire che non c’è distinzione tra le imprese più strutturate e quelle più piccole, artigianali appunto, nella reazione a scelte che rischiano di aiutare il declino a farsi decadenza. Ed è, questa, una reazione anche alla tentazione di lasciarsi andare alle pulsioni populiste e sovraniste – cui pure fino a ieri il mondo delle piccolissime imprese non aveva opposto alcuna significativa resistenza – spinta fino al punto da rendersi oggettivamente “opposizione”, anche se suo malgrado, in un sistema politico che ne è drammaticamente privo. Ed in questo passaggio che s’intravede la possibilità che la protesta dei produttori diventi così politica da indurre due conseguenze così importanti da rappresentare una svolta. La prima è la reazione di chi nel governo ha, o ritiene di avere, la legittima rappresentanza delle istanze che più soffrono le scelte e gli orientamenti dell’esecutivo stesso: la Lega. Il fatto che Salvini abbia preventivamente convocato al Viminale gli organizzatori della manifestazione degli artigiani, la dice lunga su come la freccia delle proteste abbia colpito nel segno.

La seconda conseguenza è racchiusa in una domanda: quanto può durare un governo che ha contro l’intero sistema economico e produttivo? È vero che alle elezioni i voti si contano e non si pesano, ma dal giorno dopo è vero il contrario per chi si accinge a governare, e dunque Salvini e Di Maio dovrebbero porsi questa domanda, prima che la corda che collega esecutivo e paese si spezzi, con danni enormi per entrambi. Finora la replica è stata: “siamo il governo del popolo e del cambiamento, ovvio che i poteri forti, che sentono minacciate le loro rendite di posizione, ci contrastino”. Può darsi. Ma è lecito definire così le decine di migliaia di operatori economici – industriali, artigiani, commercianti, professionisti – che da Ovest a Est del ricco e operoso Nord e Centro Italia stanno facendo esplodere i loro sentimenti di rabbia e preoccupazione? E, in particolare, può la Lega che del “fronte del pil” è già in buona misura e ambisce ad essere ancor più la rappresentanza parlamentare, ignorare che questo governo, per la sua composizione e per le scelte maturate fin qui, non può essere più tollerato da una fetta del suo elettorato esistente e potenziale? Eppure Salvini, più ancora di Di Maio, sembra arroccarsi. Respinge con un polemico “ci lascino lavorare” la protesta degli imprenditori, si dice più interessato ai lavoratori che ai datori di lavoro, ignorando che in questa fase i due fronti stanno dalla stessa parte, minimizza il problema dell’Europa con un “alla fine l’accordo lo si trova” facendo immaginare che la Ue sia un cane che abbaia ma non morde. Si tratta di un errore che rischia di rivelarsi esiziale.

È vero che in politica la storia non si ripete mai uguale, ma è altrettanto vero che rileggere il presente riflettendo sul passato male non può fare, anzi. E se noi fossimo in Salvini, non esiteremmo un momento a fare un pensiero a come in poco tempo si bruciarono il loro enorme capitale politico prima Bettino Craxi, quando non interruppe in anticipo la legislatura poi naturalmente terminata nel 1992, poi Mariotto Segni, quando dilapidò accumulato con il referendum che pose fine al sistema proporzionale (per noi sciagurato, ma per lui trionfale) e infine Matteo Renzi, quando ebbro del 40% conseguito alle europee del 2014 non ebbe la lucidità di capire che doveva passare all’incasso andando subito al voto anticipato e magari farlo non con il fardello del Pd (perché tale era e tale è rimasto) ma fondando un nuovo soggetto politico (quello che vorrebbe fare ora, arrivando in tragico ritardo, quasi certamente oltre il tempo massimo). Non vogliamo portare rogna a nessuno, ma un conto sono i sondaggi e un altro sono le urne, tanto più in una stagione dove la volatilità del consenso è altissima. Sappiamo che il leader della Lega non esiterebbe a mollare i 5stelle se avesse dal capo dello Stato la preventiva garanzia che alla caduta del governo seguirebbero le elezioni. Ma si tratta di una pretesa che è irragionevole pretendere. Mentre correre il rischio vale certo la pena, visto che l’alternativa è continuare con un governo che ha ormai irrimediabilmente compromesso ogni anche residua credibilità agli occhi dell’intero sistema economico. Quel “fronte del PIL” che, finora, ha dato la colpa della disastrosa situazione in cui siamo quasi interamente, o comunque prevalentemente, al populismo movimentista e al palese dilettantismo dei grillini, ma che con il passare del tempo inevitabilmente finirà per associare anche Salvini e la Lega a questa grave responsabilità. Anzi, lo avrebbe già fatto se non fosse che gli manca un’alternativa, avendo già dati per spacciati sia il Pd che Forza Italia. Ma l’alternativa potrebbe – e dal nostro punto di vista, dovrebbe assolutamente – nascere proprio dalle viscere di quel “fronte del PIL”, che forse per la prima volta nella sua storia è nelle condizioni di autodefinirsi “capitalismo” e, acquisendo coscienza del suo ruolo di attore sociale che sente di avere la missione di guidare la società intera, investa risorse, uomini e pensiero nella costruzione di un “partito repubblicano” dello sviluppo e della modernità. E in quel caso Salvini, prima ancora che la Lega degli amministratori del Nord, sarebbe destinato al ruolo di ennesima meteora della politica italiana. Tra un’esibizione e l’altra, ci pensi, gentile signor vicepresidente del Consiglio. Per il bene di tutti.

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