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INUTILE ILLUDERSI, IL GOVERNO PUà’ ANCHE CADERE PRESTO MA QUESTA STAGIONE POLITICA BASATA SU PAURA E RANCORE àˆ DESTINATA A DURARE

“Quanto dura?”. È la domanda più gettonata del momento e, temiamo, lo sarà sempre di più. La declinazione del quesito è molteplice: quanto dura un governo “inventato”, privo di esperienza e competenze, politicamente sbilanciato e in contrasto con l’Europa; quanto dura una coalizione in cui il più piccolo, e sposato con altri che stanno all’opposizione, sovrasta il più grande, e che ha come unico ancoraggio un “contratto”, per definizione rigido e difficilmente modificabile; quanto dura che un esecutivo che si è autodefinito del “cambiamento” senza aver minimamente delineato sulla base di quale cultura politica tale rivoluzionaria trasformazione dovrebbe avvenire, poi pratichi la più conservatrice delle “continuità”, sia quella buona (leggi Tria sulla politica economica e di bilancio) sia quella delle cattive abitudini (valga per tutte il doppio rinvio per le nomine alla Cassa Depositi e Prestiti); quanto dura che Di Maio sia costretto ad inseguire Salvini che gli ruba la scena, ed entrambi a loro volta siano l’oggetto della concorrenza politica e mediatica dell’enigma Conte; quanto dura che Mattarella, obbligato a intervenire per evitare il peggio, eserciti una funzione di supplenza, sia direttamente che attraverso i ministri Tria e Moavero; quanto dura che Berlusconi continui a recitare la parte del partner cornuto e mazziato, che subisce il tradimento della Lega con i 5stelle nel governo centrale pur di raccattare qualche posizione nei governi locali. Ci fermiamo qui perché si potrebbe andare avanti all’infinito, inquieti come si è davanti al tumultuoso accavallarsi di domande che la cronaca quotidianamente genera, che si tratti dell’esplosiva gestione delle problematiche relative ai migranti – vere, ma ingigantite nella portata e negli effetti – o che si tratti di assegnare centralità, anche solo simbolica, alle punizioni esemplari (vitalizi) da assegnare alla cosiddetta “casta”, che altro non è che la classe politica cui tutti, a cominciare dai fustigatori, appartengono.

Ma resta l’interrogativo di fondo, che tutti li racchiude, e a cui è bene non sottrarsi: nella vita politica e istituzionale, siamo di fronte ad una parentesi destinata presto a chiudersi, o il voto del 4 marzo rappresenta una linea di demarcazione tra un prima e un dopo? La nostra impressione è che la risposta sia diametralmente opposta a seconda se si considera la congiuntura politica, cioè la dinamica dei partiti e la tenuta del governo, o se si misura la temperatura della società. E può sembrare paradossale, ma nel primo caso viene da scommettere sulla brevità di questa esperienza, perché tutto fa pensare che il collante non tenga o che comunque ci sia la convenienza di taluno (Salvini, la componente più ortodossa dei 5stelle) a voltar pagina – al più tardi in occasione o subito dopo le elezioni europee del maggio prossimo – mentre nel secondo caso sono molti gli indizi che portano a immaginare che questa fase, che non esitiamo a definire involutiva, sia destinata a durare a lungo. Perché ne ritroviamo le tracce genetiche dentro i cromosomi della società italiana e, persino, in quella europea e occidentale. Come a dire che di questa rappresentazione gli interpreti sono quelli che sono, e molto probabilmente non reggeranno la scena più di tanto, ma del copione non ci libereremo tanto facilmente.

Si dirà: ma se i nemici del “cambiamento involutivo” sono diversi e potenti, dalla Confindustria che boccia le fughe in avanti pentastellate e tira le orecchie alla Lega, ai banchieri che per bocca del loro presidente Patuelli evocano la deriva argentina per manifestare tutta la loro preoccupazione per le sorti della Repubblica, come farà a durare questa stagione che non è corretto definire Terza Repubblica, ma che indubbiamente segna una rilevante discontinuità? Semplice: perché è sorretta da un reale e crescente consenso popolare. E qui veniamo a ciò che bolle nel pentolone della società. La criminalità diminuisce, i dati sui flussi migratori ci dicono che il fenomeno è in fase di significativa regressione, l’Italia è finora rimasta indenne dagli attacchi del terrorismo di matrice islamica, eppure cresce in modo esponenziale la sensazione di essere esposti all’insicurezza. Nella quotidianità usufruiamo come e più degli altri degli strumenti dell’innovazione tecnologica, ma di fronte alla portata strutturale della rivoluzione digitale – dall’industria al lavoro 4.0 – ci sottraiamo alle sfide del nuovo millennio. La nostra economia vive ormai quasi esclusivamente di export, ma rifiutiamo di adattarci ai paradigmi competitivi imposti dalla globalizzazione. Tutto ciò ha un solo comun denominatore: la paura. Viviamo con angoscia il presente, terrorizzati dall’idea che il futuro sarà peggiore, e per difenderci ci siamo creati il falso mito del “rischio zero” – corredato di neologismi terrorizzanti e allarmismi preventivi dal sapore paternalista – che pretendiamo applicare a qualunque circostanza della vita, dalla salute alle catastrofi naturali.

E quali sono le circostanze che hanno prodotto e che alimentano questo sentimento collettivo? Due quelle fondamentali. La prima è l’involuzione, oseremmo dire antropologica, del personale politico e delle classi dirigenti in genere, che ha prodotto leadership (si fa per dire) deboli, incapaci di farsi élite. E, come sostiene Kishore Mahbubani, professore di Pratica della politica pubblica all’Università di Singapore, è la mancanza di leader capaci di guidare la società dicendo la verità ai cittadini e indicando la strada da percorrere, a favore di chi si limita a farsene cassa di risonanza, usando le parole che la gente vuole sentire, che ha generato il populismo oggi dilagante. Il gioco è semplice, ancorché occorra un’indubbia abilità recitativa e mediatica: si semplificano problemi complessi – e quelli della società globalizzata lo sono maledettamente – si banalizza la competenza elevando a regola democratica “l’uno vale l’altro”, si demonizza l’esperienza in nome del cambiamento nuovista, si alimenta il rancore sociale facendo immaginare che i problemi di ciascuno siano la conseguenza dei privilegi di qualcuno, ed ecco che la macchina che produce al tempo stesso consenso e “non governo” gira alla grande.

La seconda circostanza che genera quella insicurezza che è alla base di questa stagione politica è relativa all’informazione. Sabino Cassese ha speso mirabili parole per descrivere la distanza siderale che separa i fatti dalla loro narrazione. Se la stampa, scritta e parlata, non introduce anticorpi, sia quando milita con il “politicamente corretto” sia quando recita la parte degli “scorretti”, è evidente che le “quisquilie simboliche” (la definizione è di Marco Follini), cioè le piccole schermaglie che servono solo a coprire il vuoto di cultura di chi le mette in opera, assurgono a nuovi paradigmi battezzati come epocali. Ed è così che la nostra retorica ha perso ogni nesso con gli eventi da cui dovrebbe prendere spunto. E come se non bastasse, Luca Ricolfi ci fa notare che il fenomeno non riguarda solo i media: anche la pubblicità commerciale e persino la “pubblicità progresso” portano la responsabilità di allarmare l’opinione pubblica, inculcando l’idea che siamo circondati da rischi (anziché da opportunità), che appunto devono essere azzerati comprando i prodotti adatti (e la politica moderna è anch’essa un prodotto che si vende e si compra).

Naturalmente spiegazioni e responsabilità di questa condizione della psicologia sociale sono anche altre. A cominciare da quelle di chi, al contrario, ti racconta che le tue preoccupazioni sono infondate anche quando invece hanno ragion d’essere, e che grazie a costoro tutto gira per il meglio (ogni riferimento a Berlusconi e Renzi è puramente voluto). Ma quel che conta, per capire come gira la vicenda politica odierna, è che gli animi degli italiani sono altamente infiammabili e che la scena è affollata di fuochisti e desolatamente priva i pompieri. Ma del perché scarseggino i vigili del fuoco parliamo settimana prossima.

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