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AUTOLESIONISMO NOSTRO E (SPORCHI) INTERESSI ALTRUI, IL METEO POLITICO ANNUNCIA TURBOLENZA

Allacciate le cinture di sicurezza, pericolose turbolenze in vista. Sono ben quattro le ragioni per cui c’è da essere seriamente preoccupati per la rotta dell’Italia. Due di ordine interno, e altrettante di carattere internazionale. Le prime sono sotto gli occhi di tutti: la difficile tenuta del governo e della maggioranza che lo sorregge, a sua volta generata dalla instabilità sia dei due partiti che la formano, che della loro alleanza; l’affacciarsi sulla scena di una nuova stagione tipo tangentopoli, che coinvolge e rischia di travolgere 5stelle e Lega e con essi il governo giallo-verde. Le altre due turbolenze, meno visibili ma ancor più violente, riguardano l’estrema volatilità degli assetti geopolitici, che ha sullo sfondo una strisciante guerra contro l’Europa di Stati Uniti e Russia, con l’Italia a fare da utile idiota, e il cambio di rotta della politica monetaria europea, che anticipa anche un cambio di governance della Bce, passaggi che condizioneranno pesantemente l’economia e gli equilibri continentali. Come vedete, ce n’è abbastanza da farsi venire un infarto al solo pensarci. Ma andiamo con ordine.

Il governo Salvini-Di Maio-Conte (in ordine di peso politico) non ha ancora affrontato alcun problema né messo mano al suo programma (pardon, contratto) che già balla come il Titanic. Ma non è (solo) colpa sua. Certo, uno dei suoi (pochi) atti, la decisione del Viminale di spedire la nave Aquarius in Spagna, e la conseguente reazione di Macron, ha creato non poca agitazione. Ma la vera turbolenza è generata soprattutto dalle dinamiche interne alla maggioranza. La cui prima causa è la debordante leadership politica di Salvini e la conseguente primazia della Lega, consacrate dai risultati delle elezioni amministrative di domenica scorsa. Cui si somma l’appannamento dei pentastellati, che appaiono incapaci di dettare l’agenda del governo e del dibattito politico, e che sembrano essere sul punto di ritrovarsi clamorosamente spaccati tra l’ala governativa capeggiata da Di Maio e Casaleggio, e quella movimentista che ha nel trio Di Battista-Fico-Lombardi, benedetto da Grillo, i suoi punti di riferimento. Per di più, Salvini è parso muoversi come se fosse ancora (ma sarebbe meglio dire, già) in campagna elettorale, cosa che inevitabilmente produce fortissime fibrillazioni politiche. In questo quadro, è piombata come una bomba atomica l’inchiesta giudiziaria sullo stadio della Roma, che per una coalizione che si è autoproclamata portatrice di un palingenetico “cambiamento”, forte di una presunta diversità, è quanto di peggio potesse capitare. Perché, al di là degli aspetti penali – tutti da appurare, oltre che da essere subordinati al sacrosanto principio della presunzione di innocenza (il contrario della presunzione di colpevolezza evocata, speriamo solo per errore, dal presidente Conte nel suo discorso di insediamento in parlamento) – la vicenda romana mette in evidenza un imbarazzante mix di dilettantismo e protervia che proietta tutta la sconsolante mediocrità dei “nuovi potenti”, un decadimento estetico – laddove una volta tanto l’immagine è sostanza – che trasforma i conquistatori del Palazzo al grido “onestà, onestà” da paladini dell’antisistema a sprovveduti parvenu di un potere sempre uguale a se stesso.

Ma, ai fini della valutazione sulla tenuta del sistema, occorre andare oltre la pur certa constatazione di essere di fronte all’ennesima fase di delegittimazione del sistema politico e istituzionale, e dare risposta alla seguente domanda: è pura casualità che l’inchiesta romana riguardi le attuali forze di governo e sia emersa a pochi giorni dalla nascita del nuovo esecutivo o, come si è ipotizzato in altre circostanze, siamo di fronte ad un atto di “giustizia ad orologeria”? Perché se il sospetto fosse fondato – sinceramente non siamo in grado né di affermarlo né di escluderlo – sarebbe logico stimare che ci aspetti una nuova fase di duro scontro tra politica e giustizia, con tutte le conseguenze di instabilità che è tanto facile immaginare quanto impossibile sopportare.

Fin qui abbiamo parlato di casa nostra. Ma è anche, o forse soprattutto, da fuori che rischiano di arrivarci addosso le peggiori turbolenze. La nostra preoccupazione, infatti, è che l’Italia venga usata (e si faccia usare) come terreno e come strumento di scontro nella inedita guerra che sta spaccando l’Occidente. È nostra fantasia che l’amministrazione Trump abbia a cuore l’indebolimento dell’Europa, o alcuni atti, ultimo l’imposizione dei dazi commerciali, legittimano questo sospetto? E che abbia lo stesso obiettivo Putin e che magari tra Usa e Russia, al di là dell’embargo, ci sia se non un disegno comune o quantomeno una coincidenza di finalità è solo dietrologia o lucida valutazione dei fatti? Perché in un contesto come questo, il rischio è che gli atteggiamenti italiani verso l’Europa vengano strumentalizzati, o quantomeno siano strumentalizzabili, proprio ai fini di interessi altrui. E, in questo senso, poco cambia che le nostre prese di posizione siano il frutto della legittima volontà di meglio tutelare le convenienze nazionali pur dentro la vocazione europeista, o siano invece figlie di una becera dimostrazione muscolare di sovranismo. In tutti i casi, dobbiamo sapere che spendere parole anti-tedesche o muovere guerra alla Francia – peraltro a giorni alterni – oltre ad essere velleitario, viste le condizioni del nostro paese, è pericoloso, perché si presta il fianco a farsi usare e si finisce per servire interessi altrui, e non quelli in nome dei quali si sventolano le bandiere nazionaliste. Inoltre, non si può ignorare che i francesi siano impegnati in uno scontro con i tedeschi perché vogliono ridefinire (a loro vantaggio, ovviamente) gli equilibri dentro la Ue e che non si può un giorno parteggiare per Macron perché sostiene la necessità di liberare risorse per gli investimenti pubblici e condividere i rischi dei debiti sovrani, cosa che a noi piace, e l’altro abbracciare la Merkel, perché il suo ministro degli interni ci esprime solidarietà sui migranti mentre l’omologo transalpino vomita veleno fino al punto da far scoppiare una crisi diplomatica tra Francia e Italia.

Ma la battaglia in Europa passa anche attraverso la politica della Bce. Fin qui quella tenuta sotto la guida di Draghi è stata obiettivamente favorevole ad un paese fortemente indebitato come l’Italia, perché gli ha abbassato il costo del debito e garantito uno spread contenuto grazie al massiccio acquisto di titoli. La signora Merkel, al di là delle apparenze, ha pienamente coperto Draghi, almeno finché è stata forte e fintanto che la Casa Bianca e la Federal Reserve hanno garantito a lei e al presidente della Bce una certa consonanza di obiettivi. Ora, però, la destra tedesca (specie bavarese) ha preso il sopravvento e vede di buon occhio tutto ciò che va nella direzione di smontare l’euro così come è stato fin qui, per farlo diventare un nuovo marco espressione della Germania e di alcuni paesi amici. La Francia si oppone a tale disegno, ma noi rischiamo di esserne i cavalli di Troia. E via via che ci si avvicina sia al termine del Quantitative Easing (fine anno) che alla conclusione del mandato di Draghi (31 ottobre 2019), ecco che questo scenario si fa sempre più carico di tensione e di incognite. E si può davvero credere che ad affrontare questa temperie sia un’Italietta priva di idee, di cultura, di personale politico, di classe dirigente, di strutture intermedie, di radicamento nella società? Insomma, se governo del cambiamento significa essere, consapevolmente o meno poco importa, pedine di giochi altrui, beh francamente noi facciamo volentieri a meno del cambiamento e per la prima volta in vita nostra ci definiamo conservatori.

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