SE LA POSTA IN PALIO SONO PENSIONI E ARTICOLO 18 MEGLIO UN PD SOLO MA RIFORMISTA CHE UNITARIO MA MASSIMALISTA

Con buona pace di Massimo D’Alema, che lo nega, le divisioni dentro la sinistra italiana sono quasi esclusivamente di natura personale. Lo sono state anche quando la politica aveva solide radici culturali e il dibattitto verteva su discriminanti di indirizzo politico e di merito programmatico – pensiamo alla guerra che il Pci fece a Bettino Craxi – figuriamoci ora che la politica è vuoto pneumatico riempito solo da leaderismi, e pure di quart’ordine. Ma peggio ci sentiamo quando assistiamo – come le nebulose a sinistra del Pd stanno facendo in queste ore – al penoso tentativo di riempire di contenuto il vuoto, nella (vana) speranza di suggerire agli italiani l’idea che ci si divide per ragioni nobili e alte. Pena, sia chiaro, che si prova anche nel vedere chi, Matteo Renzi, ha scientemente usato la rottura e la divisione come mezzo per la sua affermazione personale – parola d’ordine giusta, quella della rottamazione, fintanto che era un outsider, del tutto sbagliata quando è diventato leader – e ora insegue il dialogo e scimmiotta la coesione perché teme la sconfitta (definitiva).
Detto questo, siccome TerzaRepubblica non è uno spazio di gossip ma di riflessione, lasciamo ad altri il gioco di “chi sta con chi” e noi invece raccogliamo, nonostante sia inficiata dall’opportunismo, la sfida della discussione su alcuni temi ritenuti discriminanti a sinistra, o se si vuole tra sinistra e sinistra. Ne cogliamo due che hanno la stessa matrice: le pensioni e l’articolo 18. Entrambe le questioni sono state usate da chi sta oltre il Pd, a cominciare dai fuoriusciti di Bersani e dalla Cgil di Camusso, per giustificare lo smarcamento da Renzi e tentare di appioppargli un’etichetta destrorsa. Operazione sciocca e, come facilmente dimostrabile, niente affatto di sinistra, se con questo termine si vuole definire una forza che si candida a governare in modo riformista la società e non a cavalcare in modo massimalista modalità politiche tipicamente di opposizione o comunque semplicemente protestatarie. Oltretutto, un errore grave, perché rende non credibili coloro che si definiscono antagonisti del Pd renziano, perché si ritagliano come unico spazio politico per il dopo elezioni quello di buttarsi nelle braccia dei 5stelle, ammesso e non concesso che siano accolti (Bersani ci ha già sbattuto il grugno). E che, viceversa, regala a Renzi il bollino blu del riformista, etichetta che non merita, almeno non pienamente, visto che sia da presidente del Consiglio che ora da segretario del Pd, alterna scelte e affermazioni coraggiosamente riformatrici (per esempio il job acts, che pur con diversi difetti rimane una legge positivamente innovativa) con scivoloni populisti col chiaro intento di arraffare consenso popolare.
Per noi la legge Fornero e la necessità di difenderla è una linea di demarcazione fondamentale. Certo perfettibile, probabilmente da considerare punto di partenza per una revisione ancor più radicale dei meccanismi previdenziali che ancora sono una “bomba sociale” inesplosa, è comunque l’unica unica vera riforma strutturale degli ultimi 20 anni. Quella che ha salvato l’Italia dal fallimento, nel 2011. Renzi non c’era, ma dubitiamo che l’avrebbe fatta. Il Pd di allora, con Bersani e D’Alema dentro, l’ha fatta passare, ma ora vuole tornare indietro. Quella parte del centro-destra che l’ha votata preferisce trastullarsi nel raccontare che l’emergenza che l’ha prodotta, lo spread e il rischio default, era in realtà un sordido complotto contro Berlusconi. I populisti coerentemente la dileggiano, salvo che i grillini hanno via via abbassato i toni mentre Salvini è arrivato ad un vergognoso linciaggio morale della professoressa che l’ha firmata. Ora, se non ci fosse l’Europa a vigilare e qualche ministro di buon senso a difenderla (Padoan, Calenda), sarebbe già stata “rottamata”. La dice lunga il fatto che, al di là di chi sbraita per professione, chi sta al governo e chi vorrebbe andarci da eco alle richieste dei sindacati, che invocano rinvii, sconti sui requisiti per la quiescenza, la fine dell’equiparazione dell’età della pensione tra uomo e donna e nello stesso tempo pretendono garanzie previdenziali per i giovani.
Nessuno a cui venga in mente di partire dal fatto che la nostra spesa previdenziale è la più “pesante” d’Europa (16,8% del pil) e che dunque, inevitabilmente, il nostro welfare è tutto sbilanciato verso gli adulti già molto tutelati a danno dei giovani privi di coperture e prospettive. E c’è qualcuno che ha riflettuto sul fatto che in cinque anni negli “esodati” sono stati fatti rientrare quasi 200 mila over 55 senza lavoro, al costo sproporzionato di 11,4 miliardi, cioè il 13% degli 88 miliardi di risparmi attesi fino al 2021? E, ancora, c’è qualcuno a cui sia venuto in mente che se la bomba sociale insita nella eventualità che si sganci o anche solo che si riduca il nesso tra età di quiescenza e aspettative di vita crescenti, si somma con quella del debito pubblico, cui è strettamente correlata, ci potremmo di nuovo trovare con lo spread a 600 punti e la casa che brucia? È più di sinistra far pagare le pensioni attuali ai giovani – in un sistema a ripartizione, è così – o trovare nuovi equilibri che comincino a tutelare i non tutelati? Domanda che ha un senso solo se si evita di raccontare che occorre fare di più per tutti, perché sarebbe pura demagogia, nel quadro della nostra ancora disastrata finanza pubblica. No, bisogna scegliere da che parte stare, e cucire con queste scelte il proprio abito politico.
E se fin dalla riforma Dini abbiamo sempre pensato che fosse giusto aprire alla flessibilità in uscita, come corollario del definitivo passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo, sapendo però che la flessibilità non può essere il chiavistello per scardinare la riforma che garantisce l’equilibrio, pur precario, del sistema previdenziale, non meno convinti siamo sempre stati della necessità di favorire la flessibilità del mercato del lavoro. Tornare a parlare di articolo 18, tema che per anni ha bloccato il Paese e persino il decisionista Renzi, che infatti non lo ha abolito ma ne ha solo circoscritto l’applicazione, peraltro commettendo il grave errore di rendere ancor più discrezionale la giurisprudenza, non è una scelta di sinistra, è solo una scelta stupida. Possibile che non sia ancora evidente che più è complicato e costoso licenziare, più è difficile assumere?
Vorremmo che fosse chiaro che se i riformisti e i moderati non hanno il coraggio di difendere la legge Fornero “senza se e senza ma” e di dire che il job acts va migliorato e completato, e non abbattuto, perché gli uni devono recuperare qualcuno a sinistra e gli altri ritengono non sia opportuno trovare argomenti divisivi a destra, si sbagliano di grosso che gli elettori siano disposti a premiarli. Renzi recupera se smette di fare Renzi, non se insegue Bersani, Grasso e Pisapia, e Berlusconi deve temere la vittoria del centro-destra se a procurarla fossero più i voti di Salvini e Meloni che i suoi. Altrimenti sarà Grillo, suo malgrado, a fregare entrambi.

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