IL CASO BANKITALIA àˆ UNO SPROPOSITO ISTITUZIONALE E UN HARAKIRI ECONOMICO CHE FAVORISCE I POPULISTI

È sempre più chiaro che in Europa si va delineando una nuova tipologia di suddivisione politica. Come nel Novecento ci fu quella tra destra e sinistra, così oggi la linea di demarcazione separa il populismo dalla dimensione liberaldemocratica della responsabilità istituzionale. Il primo fronte si manifesta in varie modalità, dal giustizialismo giudiziario al sentimento che coltiva l’odio verso la casta politica (e non solo), dal localismo esasperato al sovranismo nazionalista, dal pauperismo anti-capitalista al peronismo del cattolicesimo che si riconosce culturalmente prima ancora che religiosamente in Papa Francesco. Tanti “ismi” legati da un sottile ma robusto filo rosso che riporta al comune denominatore della vocazione “antagonista” rispetto a quella “di governo”. Il secondo fronte è essenzialmente composto da due anime, quella popolar-conservatrice e quella riformista-progressista, entrambe europeiste (seppure con gradi e modalità molto diverse) e con cultura di governo.

In questo quadro, è altrettanto chiaro che la frontiera che maggiormente può determinare la vittoria politica dell’uno o dell’altro fronte è ubicata in Italia. E non solo perché è il paese che, tra problematiche socio-economiche (lunghezza e profondità della recessione, peso del debito pubblico, alta disoccupazione) e sensibilità a temi come l’immigrazione, è più esposto alle fibrillazioni. Se fossero solo queste le origini del populismo, non si spiegherebbero certi fenomeni, seppur fortunatamente minoritari, come quelli emersi nelle ultime elezioni tedesche e austriache. No, l’atipicità italiana è dovuta soprattutto a due fenomeni, l’uno causa e conseguenza dell’altro: la fine dei partiti, o comunque la scomparsa di riferimenti culturali solidi nei caratteri fondativi di ciò che esiste, e l’alto – potremmo aggiungere, insopportabile – grado di contaminazione populista del fronte “di governo”. Cosa che rende molto labile la linea di demarcazione tra l’un campo e l’altro.

L’ultimo esempio di questo maledetto contagio è il caso Banca d’Italia, epilogo conseguente della scelta unanime dei partiti, con l’istituzione di una inutile quanto potenzialmente pericolosa (per le distorsioni che può introdurre) commissione d’inchiesta, di volersi rappresentare agli occhi degli italiani in procinto di fare gli elettori (se andranno a votare) come i giustizieri buoni che sanzionano i banchieri cattivi e le autorità di controllo inette. Si può pensare ciò che si vuole della banca centrale e del suo governatore, così come delle vicende che negli ultimi anni hanno riguardato il nostro sistema bancario, ma da una cosa non si può prescindere: non è tollerabile, salvo non voler consegnare il paese nelle mani del populismo più becero, che temi complessi e delicati come questi vengano gestiti in una logica da “processo di piazza”. Mentre, invece, la ormai famosa (o famigerata) mozione parlamentare del Pd va esattamente nella direzione sbagliata. Sia chiaro, qui non si parla del merito di ciò che essa conteneva (prima e dopo le espunzioni realizzate in extremis dal Governo) e del suo evidente (e malcelato) intento di sgambettare la riconferma di Ignazio Visco, ma del metodo e del significato politico del suo uso, che l’amico Giacalone ha giustamente definito “uno sproposito istituzionale”. Che è tale non solo perché per norma e prassi la scelta del governatore della Banca d’Italia appartiene al capo dello Stato, previa proposta del Governo, dopo aver sentito il parere del Consiglio superiore della stessa banca centrale, cioè con una modalità in cui il Parlamento non recita alcun ruolo, ma anche e soprattutto perché essa produce un doppio strappo di cui rischiamo presto si vedere le non proprio positive conseguenze. Il primo riguarda chi, Visco o un altro la cosa non cambia, sarà chiamato a ricoprire il delicatissimo incarico di governatore. Il secondo strappo è di natura politica, e attiene sia all’attuale esecutivo sia alla possibilità che ne possa nascere uno (e nel caso, magari non di marca populista) dopo il voto della prossima primavera. Vediamole entrambe, queste lacerazioni.

La Banca d’Italia è sempre stata posta al riparo dalle inframmettenze della politica per preservarne l’indipedenza, che non è un feticcio ma una garanzia che i delicati compiti che ha sempre avuto potessero essere svolti senza che gli appetiti dei partiti – ricordate tutto il tema della partitocrazia? – potessero varcare la soglia di palazzo Koch. Negli ultimi anni tali compiti sono diminuiti, ma se ne è aggiunto uno fondamentale: è l’anello di congiunzione con la Bce, che a sua volta è non solo l’architrave fondamentale su cui poggia l’euro (e quindi i nostri redditi e patrimoni) e il collante che ha tenuto unita l’Europa comunitaria, ma anche il detentore delle chiavi della politica monetaria, che è quella che ci ha consentito di sopravvivere alla crisi del 2011 e ultimamente di acchiappare la ripresa. Non solo. Alla Bce fa ormai capo la gran parte della vigilanza sulle banche, ed è stato evidente in questi ultimi tempi come quella funzione sia stata esercitata con modalità diverse a seconda della nazionalità degli istituti di credito che erano sotto osservazione. Ebbene, ora alla guida della Bce c’è un italiano, il cui mandato scadrà però tra due anni, ed è probabile che al suo posto vada un tedesco o un banchiere centrale filo-tedesco. Il governatore che sarà nominato sarà dunque colui che – per chi è e per il contesto in cui avverrà la sua nomina – potrà o meno difendere gli interessi italiani nella sede che più conta. Non entriamo qui nel merito delle previsioni e delle preferenze sul nome. Fa premio su tutto osservare che ora, dopo il deflagrare della polemica, chiunque venga nominato rischia di essere, o quantomeno di apparire agli occhi degli interlocutori europei, azzoppato. E osservare che più passano le ore rispetto ad una decisione che andava presa tempo fa e che va comunque presa entro la mezzanotte del 31 ottobre – ma nel frattempo il 26 ottobre ci sarà un importante consiglio direttivo della Bce (chi ci va?) e il 31 stesso si celebra la giornata mondiale del risparmio con un evento dell’Acri che si ripete ogni anno in cui da sempre parlano il ministro del Tesoro e il governatore di Bankitalia – e più il nominato si indebolisce. A tutto danno di quell’interesse dell’Italia in nome del quale tutti gli attori di questa sconsiderata partita dicono di muoversi. Italia a cui l’Europa è decisa – e come darle torto – a chiedere (imporre?) l’intervento che fin qui non c’è stato sull’enorme massa del suo debito pubblico. E quel debito è poggiato in modo decisivo sul nostro sistema bancario (è stato questo fatto una concausa della fragilità delle banche italiane).

Non vi sfuggirà dunque, cari lettori, come si tratti di questioni delicatissime, e che farne oggetto del gioco al massacro della campagna elettorale sia un comportamento non solo nient’affatto meritorio, ma anche autolesionistico, perché gli italiani finiranno per punirlo nelle urne, facendo sì che si ritorca come un boomerang verso chi ha fatto l’incendiario. E qui veniamo alle considerazioni di natura più politica. Ci pare evidente che la mossa del Pd e le non meno improvvide dichiarazioni successive di Renzi (inevitabili viste le premesse) e di Berlusconi (demenziali e masochiste), combinate alle lentezze e incertezze mostrate dal Governo nonostante la fermezza del presidente della Repubblica – l’unico che esce a testa alta da questa da questa bruttissima pagina di storia repubblicana – pongano un problema politico difficilmente aggirabile. Perché delle due l’una: o prevale il veto politico del segretario del Pd, ma così si cancella la residua indipendenza di Bankitalia (e bene o male che sia stata fin qui esercitata, è cosa mortale come abbiamo visto), si mortifica Mattarella e l’istituzione che rappresenta e si certifica che Gentiloni non ha la statura del premier (bruciandolo anche per il futuro, cosa che probabilmente era negli intenti di Renzi, più che mai intenzionato a tornare a palazzo Chigi); oppure viene nominato Visco, e in questo caso il Pd dovrà prendere atto della inutilità del suo di partito di maggioranza relativa su cui questo Governo e a cui è attaccato il residuo tempo che rimane a questa legislatura, importante non fosse altro perché deve a breve licenziare la legge di Bilancio. Se fossimo nella Prima Repubblica ci sarebbero tutti gli elementi per una crisi di governo. Qui ci si accontenterà dello sputtanamento collettivo. Che avrà come conseguenza l’ulteriore avanzamento della linea populista. Cose che succedono quando i presunti anti-populisti usano le stesse armi degli avversari. Senza neppure capire che scrollato l’albero, i frutti (elettorali) finiranno nel campo del vicino. Perché se l’alternativa è tra l’originale e la copia, si sceglie sempre il primo.

Per ulteriori informazioni, consultate il sito www.terzarepubblica.it o scrivete all’indirizzo redazione@terzarepubblica.it

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