Le recenti votazioni per l’elezione del Presidente USA con la vittoria di Donald Trump hanno accentuato l’attenzione su comportamenti degli elettori che sembravano desueti. Nel suo libro “Con rabbia e speranza” Enzo Risso, Direttore scientifico della società di ricerche SWG e docente di sociologia, sostiene che uno dei concetti che stanno vivendo un processo di risemantizzazione è quello di populismo.
L’etichetta, negli ultimi decenni, è stata utilizzata per stigmatizzare una politica «demagogica, incentrata sull’adulazione sistemica della folla e accompagnata dal l’appello agli istinti più bassi» (J. Julliard). Il portato negativo dell’etichetta, ultimamente, ha iniziato a perdere smalto e ha iniziato a insediarsi una nuova decodifica: il far politica con la gente, in modo diretto, senza tatticismi, bizantinismi e burocratismi, andando al cuore dei problemi senza mediazioni, equilibrismi ed eccessi di politically correct.
Un esempio di tale processo lo possiamo osservare mettendo a confronto la percezione del populismo che hanno i giovani millennials e gli adulti baby boomers. Tra questi ultimi, ad esempio, il 28% valuta il populismo come la capacità di «considerare le esigenze del popolo»; tra i giovani, invece, la quota sale al 36%. Un medesimo processo lo ritroviamo confrontando le valutazioni di abbienti e soggetti in difficoltà economica. Tra i primi, il livello d’attrazione dell’offerta populista è al 19%, mentre tra i secondi sale al 35%. Il processo di riabilitazione del termine è, quindi, in pieno corso. Oggi per il 20% dell’opinione pubblica dirsi populista è un’etichetta politica positiva (e in questo ambito troviamo sia il 34% degli elettoriM5S, sia il 34% di quelli della Lega Nord, nonché il 30% di quelli di Forza Italia). Non solo. Il 24% degli elettori si sente vicino a una proposta politica di tal fatta. Nel corso degli ultimi vent’anni il populismo è tornato a fare capolino nel dizionario politico per lo svilupparsi di formazioni politiche europee (come il Front National) che ne hanno rivendicato il ruolo antisistema; per lo scendere in politica di alcuni tycoon, Trump negli USA, (ndr) e per la nascita di nuovi movimenti antipartitici.
L’etichetta «populista» sta vivendo un processo metamorfico, incarnando, per parti della nostra società, una rottura con le vecchie classi politiche e con le prassi corruttive; una risposta alla paura-fastidio verso l’immigrazione e l’insicurezza; un modus operandi politico chiaro, semplice e netto; una nuova classe dirigente più vicina alla gente e meno coinvolta nei giochi di potere. Tale fenomeno porta con sé il rinvigorirsi di nuovi autoritarismi e la ricerca di partiti in grado di esprimere un’anima, di semplificare la complessità del vivere odierno e di offrire risposte facili e dirette, sia in termini di vision, sia termini di soluzioni.
La risemantizzazione del termine populismo, almeno per alcuni settori della società, manifesta una nuova sensibilità (disponibilità) politica a proposte radicalizzate, capaci di dare la sensazione di una immediata, quanto agevole e radicale, soluzione ai problemi (piccoli e grandi che siano). Soluzione che, per essere percepita come efficace, deve identificare chiaramente il nemico; deve indicare soluzioni forti e risolutive; deve raffigurare una risposta, non razionalizzata, alla rabbia sociale (specie del ceto medio impoverito) e alle incertezze di vita generate dalla contemporaneità e dalla crisi.
L’opzione populista, quindi, lungi dall’essere ai margini della storia e della politica, sta rientrando, sempre più a pieno titolo, nell’arena politica nazionale ed europea.
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