OCCHIO, LE LUSINGHE DI OBAMA NON SERVONO A FRONTEGGIARE LE RISERVE UE SULLA MANOVRA E LA FEROCIA DI PUTIN

A Washington più che uno spot a favore del Sì in vista del referendum italico, come amici e nemici di Renzi si sono prontamente rinfacciati con il solito approccio provinciale, tra trionfalismi fuori luogo e infondate accuse di ingerenza amerikana (la “k” è d’obbligo) nei nostri affari interni, è andato in scena un galà in onore dell’Italia che aveva come obiettivo la campagna elettorale di Hillary Clinton, cui Obama partecipa attivamente (gli è rimasto solo quello), nel tentativo, non sapremo dire se riuscito, di conquistare il grande bacino di voti degli italo- statunitensi. E come tale va rapidamente archiviato. Anche perché di ritorno dai fasti (apparenti) a stelle e strisce, il presidente del Consiglio si ritrova due patate bollenti per le mani, tra loro intrecciate: la questione europea, in cui ha ormai deciso di giocare il ruolo del pierino, e l’ancor più delicata vicenda geostrategica che ha per protagonista Putin. Sarà bene che Renzi smetta di fare campagna referendaria girando l’Italia come una trottola – ma non aveva detto che voleva spersonalizzare la contesa? – e si concentri su questi due fronti, che ben più dell’eventuale vittoria del No possono procurargli (e procurare a noi) seri problemi.

A Bruxelles il Governo ha deciso di forzare un po’ la mano sui conti pubblici. Bene, nessuna obiezione di principio. Anzi. Ma, in pratica, su che basi ci stiamo ritagliando un ruolo, dal momento che il confine tra seri oppositori di una politica economica sbagliata o comunque limitativa e quello di fastidiosi rompiscatole privi di attendibilità è assai sottile? Saremmo credibili se avessimo predisposto una manovra di bilancio tutta concentrata sugli investimenti finalizzati alla crescita e se ci fossimo minimamente dedicati alla riduzione del debito (che con gli avanzi primari non frena la sua crescita, né in valore assoluto né in percentuale sul pil). Anzi, in questo caso avremmo avuto buon gioco a sforare i limiti del deficit ben di più di quanto abbiamo osato fare. Ma così non è stato. Su oltre 26 miliardi di manovra, più di 15 sono andati per la sterilizzazione dell’Iva (che comunque rispunterà fuori l’anno prossimo) e dei restanti 11 una parte cospicua è spesa pubblica corrente, tra previdenza (con una commendevole inversione di tendenza sull’età pensionabile) e pubblico impiego, e solo una parte residua finanzia lo sviluppo, l’innovazione delle imprese e la produttività (con buoni provvedimenti, a cominciare da quelli relativi al piano “Industria 4.0”). Mentre dal lato delle entrate, 12 miliardi sono di deficit aggiuntivo; gli altri 14 poggiano per la metà su una tantum, e la restante parte riguarda entrate (come il recupero dell’evasione) e minori spese (la spending review rappresenta solo il 20% dell’intero spettro delle coperture) a forte tasso di aleatorietà. Come si vede, senza neppure aver bisogno di entrare nei dettagli, la composizione della manovra è fragile (difficile dire che assicura l’1% di crescita del pil previsto, stima che nessun organismo previsionale condivide) e assai discutibile: cosa che oltre ad essere sbagliata in sé, ci rende deboli nel confronto con l’Europa, alla quale, gridando, rinfacciamo i suoi limiti senza aver fatto i compiti a casa come si deve. Che non sono quelli di tagliare selvaggiamente in nome del “dio rigore”, ma di spendere anche di più purché diversamente (in conto capitale, non per spesa corrente).

Non pochi sostengono che si tratti di una manovra di stampo elettorale, in vista del 4 dicembre. Può darsi, ma non c’è bisogno di spingersi sul ciglio di questa frontiera polemica per sostenere che siamo di fronte ad una legge di bilancio poco ambiziosa e sicuramente non discosta dalla politica economica messa in campo fin dal primo momento dal Governo Renzi, quella – basata sull’idea, sbagliata, che distribuire un po’ di soldi a vario titolo avrebbe generato crescita attraverso un aumento dei consumi, e per di più avrebbe prodotto maggiore equità e quindi vantaggi politico-elettorali – che ha suscitato una condizione economica del Paese di cui, paradossalmente, lo stesso primo ministro si è a più riprese dichiarato insoddisfatto. Il “verso” all’Italia non è stato cambiato fin qui, né lo sarà con questa manovra. Che riceva o meno il via libera di Bruxelles.

Viceversa, la temperatura dei nostri rapporti con l’Europa ha importanza decisiva sull’altro scacchiere, quello geopolitico. E in particolare sul fronte caldo dei rapporti con la Russia. Qui si cammina sulle uova, stretti nella morsa tra la scelta americana – che la Clinton probabilmente manterrà e Trump sicuramente interromperà – di isolare Putin, regalandogli così un ruolo di “leader globale” che difficilmente avrebbe saputo conquistare senza i marchiani errori di Obama, e la dottrina tedesca del “nessun nemico a Oriente”, che in Europa è stata un dogma fino allo scoppio del problema ucraino e l’accettazione del diktat Usa sulle sanzioni alla Russia. Le quali hanno prodotto, oltre ad un forte danno per alcuni paesi esportatori, tra cui l’Italia, un forte risentimento dei russi per il peggiorare della loro condizione economia che ha finito col dare allo Zar Vladimir un forte consenso interno, che gli ha permesso di imbavagliare l’opposizione e di innescare un’escalation diplomatica e militare nell’Est Europa e in Medio Oriente, fino a permettersi un’incursione senza precedenti (vedi il caso degli hacker anti-Clinton) addirittura nella campagna elettorale americana. Renzi, in tutto questo, ha di fatto scelto di stare dalla parte degli Usa, e lo ha fatto platealmente a Washington inebriato dagli oneri concessigli con il pomposo ricevimento alla Casa Bianca. Bene, si dirà, non possiamo non essere atlantisti. Ma non sarebbe stato più prudente attendere di sapere chi sarà il prossimo presidente? In fondo manca un mese, e in un batter d’occhio Obama e la sua politica estera, chiunque vinca, saranno dimenticati. Muoversi in questo scenario sarebbe difficile per chiunque, figuriamoci per chi lo fa nei ritagli di tempo tra un comizio, una comparsata televisiva e una visita in una fabbrica. Speriamo che il 4 dicembre arrivi presto, e che il “dopo” ci porti la possibilità di ragionare.

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