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GLI ULTRAS DEL SI E IL REFERENDUM

di Domenico Bilotti

Chi scrive non è aprioristicamente ostile, né nemico giurato in partenza, di modifiche costituzionali che intendano smuovere la sezione istituzionale della Carta. Il sistema di pesi e contrappesi, sapientemente messo su, mattone su mattone, dal Costituente, è stato violentemente abusato nel corso della Prima Repubblica. Il modo in cui la Seconda ha infierito su un sistema già disastrato ha fatto persino (sic) avere nostalgia del consociativismo e dei sistemi elettorali proporzionali. Se la modifica normativa assiste davvero una trasformazione, merita di essere presa in considerazione. Il punto, piuttosto, è che la riforma su cui gli elettori sono chiamati ad esprimersi il 4 Dicembre non presenta questo complessivo quadro di migliorie, anzi in molti aspetti peggiora i già inadeguati interventi di revisione costituzionale avutisi negli anni precedenti.

La revisione costituzionale va maneggiata con cura, non può essere esercitata fuori da un quadro preciso di principi, orientamenti e valutazioni ponderate. Anche quando con la revisione costituzionale si formalizzano buone norme largamente condivisibili – ricordiamo la costituzionalizzazione del giusto processo o le disposizioni per la tutela della condizione di genere nei rapporti pubblici e in quelli di tipo privatistico – non è detto che siano attuate a regola d’arte. Il contenzioso in Italia è al collasso, la situazione carceraria insostenibile, la partecipazione femminile ai quadri decisionali del Paese è decisamente sottovalutata e svilita.

Altro aspetto: la revisione costituzionale “omnibus” (con un solo testo di modifiche capovolgere decine e decine di disposizioni) rischia sempre di essere disordinata, disorganica e inefficace. Si guardi ai vari Paesi europei che negli ultimi due decenni hanno adottato novelle costituzionali: quando si è proceduto con intenzioni specifiche e dichiarate e una metodologia d’intervento seria, i risultati sono stati buoni. Quando si è voluto fare tutto e il suo contrario, i risultati sono stati disastrosi.

Queste ovvie considerazioni generali si inseriscono in un quadro politico italiano che ha fatto spesso della revisione costituzionale terreno di conquiste, metaforiche e materiali. La revisione costituzionale utilizzata per imporre una visione e per stabilire una linea. Si veda il pareggio di bilancio (illogico e soffocante, almeno nei termini pedestri in cui è stato codificato). O, ancor più, la prima riforma del Titolo V e delle autonomie nel 2001: una tecnica di produzione legislativa, di scrittura della norma, che fa rimpiangere i pedanti regolamenti condominiali rappresentati in numerose commedie cinematografiche degli anni Sessanta e Settanta.

Se nel 2001 la riforma del Titolo V poteva avere come slogan il federalismo e la sussidiarietà, se la politica di bilancio del governo Monti poteva leggersi come austerità e negazione della spesa sociale ai fini della ripresa economica, il passo di questa riforma Boschi-Renzi è, purtroppo, quello di un decisionismo centrato male. Superare il bicameralismo perfetto, ritrasferire competenze in capo allo Stato centrale, ridurre l’apparato politico … sono tutti temi sui quali c’è condivisione. Da decenni sono stati il cavallo di battaglia di un pensiero riformatore, in Italia sempre vessato e minoritario. Oggi sono istanze percepite come tali da molti cittadini. Che senso ha avuto pretendere di mettervi mano con questa imperizia? Una Camera rimane, e un’altra pure … solo che ha minori poteri – cioè, potrebbe non essere utile – e i suoi rappresentanti non sono direttamente eletti. Le competenze tra lo Stato e le Regioni avranno un nuovo asset. Tutte le norme che riattribuiscono competenze, nella storia del diritto italiano (non solo costituzionale e non solo amministrativo), moltiplicano il contenzioso, i rallentamenti e i conflitti giurisdizionali e burocratici in modo esponenziale. Davvero la riforma aggredisce i centri di spesa? Davvero è stato meglio scarnificare all’osso le province (non abolirle!) e mantenere l’organizzazione regionale così com’era nei suoi lineamenti istituzionali?

Davvero ci si deve schierare per questa riforma? Davvero tutto lo sforzo e tutto l’impegno impresso nei decenni passati al tentativo di migliorare la qualità della partecipazione politica meritava di finire stritolato in un testo contemporaneamente asfittico e onnivoro, che promette e non mantiene, che dice e non dice?

La prudenza avrebbe imposto di calendarizzare le riforme costituzionali in uno spazio almeno biennale, senza pretese di bacchette magiche e colpi di reni (o di frusta). Mettendo nero su bianco cosa cambiare e indicando per bene come davvero si voleva procedere al cambiamento. Questo sarebbe stato il metodo di una riforma in grado di ottenere consenso anche nel merito. Altrimenti, non è cambiamento: è regressione.

Si ricordi, poi, il clima becero che sta connotando la campagna elettorale. È molto antipatico – oltre che triste – che importantissime cariche istituzionali modellino la propria strategia comunicativa sulla “chiamata alle armi”: o fuori o dentro, o con noi o contro di noi, o noi o loro … ma a che serve? E soprattutto che resta in mano al cittadino, alla fine della giostra, dopo questo tiro incrociato? La vera partecipazione democratica che non lede il profilo istituzionale di uno Stato è quella che propone, analizza e arriva a sintesi con vigore, non con strafalcioni o, perlomeno, scelte intemperanti e toni elettorali fuori luogo. Approvare questa riforma costringerebbe a dovervi rimettere mano: non ha i presupposti per gestire una fase attuativa, non dispone in meglio e non realizza realmente gli scopi che la hanno richiesta. I cittadini possono e devono sentirsi liberi di non sentirla loro propria e di chiederne a gran voce altre. Chi lo nega, più che padre costituente, potrà al più figurare come ceto politico che ha fatto l’ennesimo errore.

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