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CHI CONFONDE ISLAM ED ISIS CI METTE IN PERICOLO

Impostare la discussione sulla sicurezza internazionale soltanto in termini di propaganda religiosa ci espone ai pericoli che la società occidentale sta, per nostra sfortuna, sempre più spesso sperimentando.
Il fondamentalismo violento non può essere decodificato (e tanto meno combattuto) ricorrendo allo stereotipo inesausto del “noi e loro”. In un modo molto discutibile, persino i terroristi stanno facendo variazioni sul tema rispetto a questo canovaccio: il “loro” e' a volte infedele, a volte invasore e non raramente un qualsiasi “malcapitato”.
Vittima perché dall'altra parte di una barricata fittizia. Far passare un messaggio preciso: dall'altra parte del muro tutti sono vittime potenziali, perché chi attacca assume di avere la forza di trasformare ogni nemico (vero e presunto) in una vittima. Malcelata volontà di potenza, dove però inizia lo iato tra Islam e terrorismo, perché il Corano, anche nelle sue pagine più cruente, non descrive mai un indiscriminato radere al suolo, un abbattimento indistinto o un assedio infinito. Le nuove leve del terrore non pescano nella dedizione esegetica o nel comunitarismo confessionale. Si nutrono anche troppo spesso, invece, di spettacolarizzazione, esasperazione e intimidazione. In casa propria, come nelle music hall dell'infedele mondo occidentale. E anche l'esemplarietà del gesto, la ricercata truculenza e la mentalità dell'agguato, a ben vedere, non possono ne' devono essere ricondotte all'Islam, anzi una fede e una cultura che condanna l'eccesso, che conosce forme di rispetto e non belligeranza anche al di fuori della umma. Il dato più contraddittorio, rispetto alla disarticolazione dei cartelli e delle organizzazioni fondamentalisti che di prima generazione, non riguarda soltanto la capacità dell'IS di assemblare nuovo e vecchio, di includere o sottomettere reduci, miliziani stranieri, soldati sul campo, attentatori e maestri della propaganda high tech.
Semmai, le vere contraddizioni stanno nel modo in cui le amministrazioni e le dirigenze politiche occidentali vanno formulando una ancora incompiuta strategia offensiva-difensiva. Negli intendimenti, col ricorso a bilanciate iniziative militari. Nei fatti, non aggiornando la propria strategia internazionale. In particolar modo, per quanto possa essere ben più che comprensibile (ma non giustificabile) l'imperizia con cui si guarda alla Siria, alla Libia e all'Iraq, con una stasi palese quanto mediaticamente altisonante, due lati del problema restano totalmente scoperti. In primo luogo, non si profila una adeguata riflessione condivisa sulle cellule occidentali. Esse però hanno davvero poco a che fare con le migrazioni correnti: riguardano spesso cittadini di seconda e terza generazione. E' il fallimento di una cittadinanza intesa quale nuda veste formale e purtroppo dimostra i rancori profondi -ai limiti della nevrosi- che vengono causati dall'assimilazione e dall'integrazione senza partecipazione. Per molti “arruolati” dell'ultima ora, “IS” (o peggio: l'Islam nel suo complesso, la declinazione conservatrice e negativistica tipicamente occidentale dell'Islam) rischia di diventare un appetibile franchising del terrore, una valvola di sfogo rispetto all'afasia reciproca di “disperati” e “governanti”. E manca la riflessione su cosa rischia di diventare il proselitismo fondamentalista nell'Africa profonda, dove sin da ora (e da decenni) dietro le motivazioni ius-religiose si lasciano allignare le frange più intransigenti e guerrafondaie. Affrontare questi discorsi implicherebbe ripensare gli strumenti a tutela della libertà religiosa, le forme silenti e croniche dell'alienazione urbana, mettere all'indice il mercato delle armi, legale e illegale, nazionale e sovranazionale. Molto più comodo prendersela con l'Islam, creare un Islam “calderone”, in cui far rientrare tutti i conflitti che non riusciamo a capire.

Domenico Bilotti

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