LA SCELTA DI GUERRA DI HOLLANDE, PER RAGIONI POLITICHE INTERNE, METTE IN CRISI L’EUROPA E NON SERVE CONTRO IL TERRORISMO. L’ITALIA NON CI CASCHI

A Parigi il 13 novembre sono state uccise e ferite alcune centinaia di persone innocenti in uno degli attentati terroristici più gravi ed emotivamente traumatici che siano stati consumati in Europa dal dopoguerra in poi. Ma tre giorni dopo ad essere colpita a morte è stata l’Europa stessa, o se si vuole quell’idea di integrazione politica e istituzionale dei paesi del Vecchio Continente che hanno in comune una moneta che è stata alla base, seppur poi tradita, dei padri fondatori dell’euro. “A la guerre comme à la guerre”, ha detto al Parlamento francese solennemente riunito in seduta comune a Versailles, François Hollande, il più mediocre dei presidenti che la Francia abbia mai avuto. Intendiamoci, la sua è una scelta per molti versi comprensibile, forse indispensabile per lui, per i socialisti e per gli stessi gollisti, di fronte all’altissima probabilità che la destra della Le Pen possa fare il pieno di consensi per effetto della reazione popolare alla strage e alla evidente vulnerabilità del sistema di sicurezza e di intelligence gestito dalla gauche. Ma è una scelta sbagliata in sé, e letale per l’Europa.

Sbagliata primo perché non si può dichiarare guerra ad uno Stato che non esiste, finendo così con il legittimarlo: immaginiamo che quelli dell’Is (o Isis che dir si voglia) si siano fregati le mani. E secondo perché non si può confondere i soldati con i terroristi, le cui azioni pongono problemi di sicurezza interna, ma non rappresentano una minaccia di tipo militare. È vero che gli attentatori sono ispirati all’Isis e dall’Isis, ma sono anche autonomi, in molti casi si tratta di cittadini europei (nel caso di Parigi, francesi e belgi) e il loro reclutamento in genere è opera di predicatori e “cattivi maestri” insediati nelle nostre città. Come ha ben spiegato un esperto di strategie militari come Stefano Silvestri, la lotta contro di loro richiede un’intensa azione investigativa e di intelligence, una forte iniziativa di contro-propaganda e di mobilitazione sociale, soprattutto all’interno delle comunità etniche e religiose d’origine, che occorre infiltrare. Invece, aerei e carri armati, con tutta evidenza, non servono.

E poi, oltre che in Siria e Iraq, gli uomini del califfato hanno costituito affiliazioni dell’Isis in molti altri paesi, dalla Libia alla Nigeria passando per lo Yemen: che si fa, si scende in guerra con tutti? E ancora: guerra significa raid aerei o intervento di terra? Perché nel primo caso di bombardamenti dall’alto finora ne sono stati fatti a centinaia, senza per questo aver dichiarato guerra (e anche senza il minimo risultato), mentre nel secondo caso andrebbero spiegate le regole di ingaggio di una forza militare che o è occidentale (e quindi Nato) o non è.

Non sappiamo se Hollande abbia studiato la storia e abbia voluto imitare i suoi predecessori di quella fase iniziale del secondo conflitto mondiale quando, dopo l’attacco tedesco alla Polonia (1 settembre 1939) e la dichiarazione di guerra di Francia e Gran Bretagna alla Germania (3 settembre 1939), le truppe francesi e inglesi si mantennero inattive, in una sorta di “surplace”. Sarà bene comunque ricordargli che quella che fu chiamata “drôle de guerre” (guerra farsa) terminò (10 maggio 1940) con un disastro: l’invasione tedesca del Belgio e dei Paesi Bassi.

Insomma, un conto è dichiarare “guerra” al terrore, come si fece dopo l’11 settembre 2001, quando gli alleati offrirono agli Stati Uniti la solidarietà derivante dall’articolo 5 del Trattato di Washington, e cioè la mobilitazione della Nato. Altro è scendere in guerra, intesa come conflitto militare, contro uno Stato, che peraltro non ha alcun riconoscimento come tale. Ma c’è di più. Hollande non ha invocato, come tutti si aspettavano, l’articolo 5 del Trattato Nato, bensì quello 42.1 del Trattato europeo di Lisbona, che fa riferimento alla guerra tra Stati e non al terrorismo. La differenza è sostanziale. Perché ora si apre uno scenario di “economia di guerra” dove i vincoli europei di bilancio, su cui si è costruito da Maastricht in poi l’euroristema, sono archiviati per lasciare che deficit e debito diventino gli strumenti con cui fare la guerra, come storicamente è sempre stato.

Si dirà: bene, abbiamo sempre detto che le regole europee sono stupide e questo cambiamento di scenario ci permetterà di liberarcene. E no, un conto è avviare una politica per la crescita, che peraltro non dovrebbe affatto aumentare il già pesante fardello europeo del debito (la media Ue in rapporto al pil è oltre il 90%, trenta punti in più della fatidica soglia del 60% sotto la quale tutti i paesi dovevano stare) come a ben spiegato a “Roma Incontra” l’economista keynesiano Pierluigi Ciocca ricordando a chi lo cita a sproposito che Keynes odiava il debito e non proponeva affatto di accrescerlo a dismisura. E altro è metter mano alla spesa pubblica senza limiti per impegni militari. Per cifre di fronte alle quali la famosa flessibilità di cui la stessa Francia ha usufruito e alla quale un po’ furbescamente abbiamo fatto ricorso noi italiani – e per la quale, peraltro, siamo stati rimandati agli esami di riparazione del prossimo anno – finirà per essere una misera questua. E cosa facciamo, costruiamo la ripresa sulle spese per la sicurezza e gli interventi militari? E per di più senza avere uno straccio di integrazione dei sistemi di difesa che avrebbe dovuto consentire di avere soldati, poliziotti e servizi segreti europei? Gli Stati Uniti 14 anni fa lo fecero, ma su ben altre basi. Loro sono uno stato federale, mica un accozzaglia di paesi che non hanno mai ceduto un briciolo della loro sovranità come hanno fatto gli europei, anche dopo aver creato una moneta comune. E sapete qual è il paese che più si è opposto all’idea di rinunciare ad un po’ di potere indipendente? No, non la ruvida Germania, che semmai ha il vizio di concepire eventuali Stati Uniti d’Europa come tedesco-centrici, ma la sciovinista Francia. E sapete quale processo politico continentale innescherà la “dichiarazione di guerra” del non europeista Hollande, fatta anche e soprattutto per riconquistare la centralità perduta? Che aggraverà l’eclisse di leadership di Angela Merkel, già in forte difficoltà per ragioni interne tanto da far parlare di una sostituzione con il falco Wolfgang Schäuble, mettendone così seriamente a rischio il posto. Chissenefrega? E no, mica diventerebbe cancelliere un esponente dell’ormai inesistente Spd o un altro democristiano moderato come lei: ci ritroveremmo un uomo della Bundesbank, magari bavarese, e sarebbero dolori. E sapete chi ha già fatto tesoro dell’improvvida uscita di Hollande? Sì, proprio zar Putin, rapidissimo nell’ordinare alla marina russa di agire “in piena cooperazione con l’alleata Francia”, ridicolizzando Obama che finora ha trattato l’Is come una banale rete di tagliagole. Chi pensa che questo sia un bene alzi la mano.

Renzi e il governo italiano hanno assunto un atteggiamento prudente. Noi pensiamo che sia un bene. E anche se temiamo che si tratti più di un riflesso condizionato della nostra debolezza che di una scelta strategica, sosteniamo con convinzione questa scelta. Tuttavia, sarà bene che si apra subito nel Paese un confronto su quali orientamenti assumere e sulle conseguenze europee senza precedenti che la scelta francese ci rimbalzerà addosso. Noi di TerzaRepubblica faremo la nostra parte, con lo spirito critico e costruttivo di sempre.

A gennaio, andando controcorrente, dicemmo che “non siamo Charlie”, e rivendicammo il diritto di affermare che non ci piace l’impotenza buonista tanto quanto il belluino richiamo alla guerra. Ricordando a noi stessi che la superiorità occidentale, cui noi crediamo profondamente, si dimostra usando l’intelligenza valutativa e la razionalità reattiva, non l’emotività viscerale. Lo dicemmo allora e lo ripetiamo ora, pur sgomenti di fronte alla barbarie. La guerra esiste, certo, ma non è la nostra. La cosiddetta “guerra di religione” è nel (e non del) mondo islamico. È quella, drammaticamente sanguinosa, che i musulmani stanno facendosi tra loro da molto tempo, divisi da concezioni radicalmente diverse dell’Islam. E che è resa maledettamente complicata dal suo intersecarsi al diabolico intreccio tra gli interessi egemonici di varie potenze musulmane (Arabia Saudita, Turchia, Egitto, Iran, paesi del Golfo) e gli interessi economici e politici delle maggiori potenze occidentali, nel quadro geopolitico della globalizzazione che ha rimescolato le carte della storia. Dunque, gli attacchi terroristici di cui siamo vittime sono azioni che non servono a fare un’impossibile guerra all’Occidente, ma a legittimare agli occhi dei fedeli la guerra interna all’Islam, finalizzata alla presa del potere da parte di gruppi che usano il fanatismo come mezzo di conquista. Dopo la caduta delle torri gemelle sembrava dovesse scoppiare la terza guerra mondiale (noi non ci abbiamo mai creduto), sono passati 13 anni e non è successo. Dunque, non facciamo prendere la mano dall’emotività. Abbiamo molti più problemi “interni” – impedire che la curva del progresso, che nell’ultimo mezzo secolo ha messo il turbo, non diventi discendente – che “esterni”. Immaginare una crociata contro il nemico islamico, per esorcizzare le nostre paure, finirebbe solo con l’alimentare le ragioni del fondamentalismo agli occhi dei popoli islamici e col creare un perfetto alibi alla (crescente) deresponsabilizzazione delle classi dirigenti occidentali. Non caschiamoci.

Per ulteriori informazioni, consultate il sito www.terzarepubblica.it o scrivete all’indirizzo redazione@terzarepubblica.it

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