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La falsa democrazia dei Paesi anglosassoni e il servilismo dell’attuale classe politica italiana

Ricordo di aver letto da qualche parte un disarmante parere di Churchill sul sistema democratico-parlamentare che, peraltro, è un’invenzione inglese: la democrazia è un pessimo sistema di governo – era grosso modo il giudizio dell’ex premier britannico – ma, purtroppo, non se ne conosce uno migliore.

Ho ripensato a questa mia vecchia lettura l’altro giorno, quando i telegiornali snocciolavano i risultati delle elezioni inglesi. O, meglio, quando i telegiornali riferivano il numero di seggi acquisiti dai vari schieramenti, tacendo sistematicamente il numero di voti ottenuti da ciascun partito. Idem l’indomani mattina, scorrendo in video le prime pagine dei quotidiani. Tutti allineati e coperti nel magnificare non tanto la vittoria del partito conservatore, quanto l’ottenuta maggioranza assoluta (in seggi, beninteso) e lo scampato pericolo di un pareggio che avrebbe irritato i mercati. Solo “Il Manifesto” – onore al merito – riportava in prima pagina i numeri veri, quelli dei voti e non quelli dei seggi.

Già, perché i numeri veri raccontano una storia completamente diversa da quella ammannitaci da giornali e telegiornali: i conservatori avrebbero la maggioranza assoluta dei seggi, ma solo il 36,8% dei voti (più o meno la stessa percentuale delle precedenti consultazioni); i laburisti avrebbero perso più di 20 seggi, ma avrebbero guadagnato quasi un milione di voti; i populisti antieuropei dell’UKIP sarebbero diventati il terzo partito inglese (13%) ma avrebbero solo 2 seggi; il piccolo partito nazionalista scozzese resterebbe in fondo alla classifica (4,5%) ma otterrebbe addirittura 56 seggi. In una parola, la negazione completa del primo comandamento della democrazia: “un uomo, un voto”.

Certo, non siamo ancora alle vette antidemocratiche della democrazia americana, ma anche in Inghilterra, oramai, è aritmeticamente possibile la vittoria elettorale del partito perdente. La verità è che il tanto ammirato sistema anglosassone – quello che ha così tanti ammiratori qui da noi – non ricerca la rappresentanza democratica dell’elettorato ma, più semplicemente, la cancellazione delle forze politiche dissenzienti, negando loro una rappresentanza parlamentare in nome (o forse sarebbe meglio dire “con la scusa”) della cosiddetta “governabilità”.

Il metodo è semplice, e ha fatto scuola: si creano due grandi partiti-contenitori (uno di centrodestra e uno di centrosinistra) che sono pienamente integrati nel “sistema”, e li si attrezza per ospitare tutte le componenti dei rispettivi versanti politici, dalla più moderata alla più radicale. Dopo di che si appronta una legge elettorale che consenta l’attribuzione dei seggi solamente ai grandi partiti, tagliando praticamente fuori tutti gli altri. In questo modo, la democrazia diventa una partita fra due compari: repubblicani e democratici negli USA, conservatori e laburisti in Inghilterra, gollisti e socialisti in Francia, democristiani e socialdemocratici in Germania.

E in Italia? In Italia avevamo un gioiellino che si chiamava “proporzionale”, aderente – quello si – al principio “un uomo, un voto”. Non eravamo obbligati a scegliere fra berlusconiani o antiberlusconiani, fra renziani o antirenziani, e ognuno votava per il partito del cuore, per piccolo che fosse. Quanto alla governabilità – come ben ricordano coloro che hanno operato durante la deprecata “prima repubblica” – questa era sempre assicurata: magari dopo una poco edificante trattativa su poltrone e poltroncine, ma alla fine si trovava sempre (e abbastanza facilmente) la quadratura del cerchio.

Poi arrivarono gli scienziati, gli innamorati dell’America, quelli che parlavano inglese anche col loro cane, a sostenere che no, non si poteva assistere alla trafila delle trattative interpartitiche e che anche in Italia dovevamo modernizzarci e adottare il sistema elettorale dello Zio Sam e di Sua Maestà Britannica. E fu subito “maggioritario”.

Il primo impatto (nel 1994) non fu negativo; ma solamente perché, in una corsa a tre, la coalizione vincente travolse tutti. Ma poi, non appena si andò a “perfezionare” il maggioritario e lo si ridusse a uno scontro fra chi voleva “battere le destre” e chi voleva “sconfiggere i comunisti”, la brillante trovata degli amerikani di casa nostra andò a farsi benedire.

Alla fine, fra un Mattarellum, un Tatarellum ed un Porcellum, siamo arrivati all’Asinellum di oggi; ovverossia a quel cosiddetto Italicum che, accompagnato dalla sostanziale abolizione del Senato, dovrebbe servire ad assicurare al Pifferaio dell’Arno il dominio incontrastato sul parlamento. Naturalmente, ciò potrà avvenire solamente se il PD (ridotto ormai ad una proprietà privata) sarà anche in futuro la prima forza politica. Altrimenti, Renzi inconsapevolmente avrà lavorato per Salvini o per Grillo.

Berlusconi l’ha capito e si agita, con la calcolatrice in mano: ove riuscisse a mettere insieme Salvini e Casini, Fitto e Verdini, Alfano e Meloni, e tutti coloro che si collocano a destra del ragazzino toscano, i numeri potrebbero consentirgli di sopravanzare il PD e di ottenere la maggioranza assoluta. La strada è quella, e il risultato delle elezioni inglesi – per l’appunto – sono una ulteriore conferma che si può avere una maggioranza di seggi anche con una minoranza di voti.

Ma, per far questo, gli servirebbe un bel partito “all’americana”, uno di quei congegni a orologeria che, una volta ogni quattro anni, si svegliano da un lungo letargo e riempiono i teatri, fra palloncini colorati e stelle filanti. Naturalmente, visto che il centro-sinistra italiano ha già scimmiottato il nome del modello americano (Partito Democratico), il cavaliere vorrebbe fare pendant, battezzando la sua nuova creatura Partito Repubblicano. Al servilismo non c’è mai fine.

Michele Rallo

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