Rieccolo. Puntuale come nient’altro in Italia, ecco a voi il “tesoretto”. Già, quando si approssimano delle elezioni spunta sempre una riserva di risorse – di solito figlie della contabilità, e quindi virtuali – che il governo di turno usa per incrementare la già debordante spesa pubblica, per finalità che si definiscono sociali ma che in realtà sono elettorali.
Anche l’attuale esecutivo, ahinoi, non si è sottratto all’atavica abitudine italica, e alla vigilia delle regionali ha sventolato sotto il naso degli elettori un miliardo e mezzo da spendere “a fin di bene”. Soldi che emergono dalle cifre del Def – il documento di programmazione economica che, da sempre, è il libro delle buone intenzioni dei governi – varato venerdì sera da Renzi con un’abile regia di attese e informazioni fatte filtrare ad arte. Quelle risorse, che si dice diventeranno 6,5 miliardi l’anno prossimo, non sono altro che il margine che il governo intende tenersi – giustamente – tra il deficit reale (2,5% del pil) e quello programmato (2,6%), sempre che la previsione di crescita del prodotto lordo di sette decimi di punto venga poi rispettata. L’Europa ci ha infatti concesso di stare un pochettino più larghi nel deficit corrente – in cambio della promessa di riforme strutturali e ponendo comunque il vincolo che eventuali “buchi” verranno coperti nel 2016 con ben 16 miliardi di tasse in più – e noi ci prendiamo tutto il margine. E lo 0,1% del pil fa appunto 1,5 miliardi. Renzi non ha specificato come saranno spesi, rimandando la decisione a più avanti, ma ha fatto trapelare dai suoi che a beneficiarne sarà il welfare, e segnatamente qualche voce di spesa sociale a favore dei “nuovi poveri”. Di fatto, un prolungamento ad altri fasce di popolazione, i cosiddetti incapienti, degli 80 euro già distribuiti l’anno scorso.
Siamo pronti a scommettere che tutta l’attenzione sarà rivolto a questo benedetto “tesoretto”. Si discetterà se i soldi ci sono davvero o meno, se è opportuno usarli così visto che gli 80 euro non hanno prodotto un centesimo in più di consumi e quindi non sono serviti a spingere la ripresa, oppure ci si lamenterà che quanto concesso ai poveri è poca cosa e che bisognerebbe fare molto di più. Noi, invece, ci sottraiamo a questo inutile dibattito. Preferiamo andare a guardare quanto è successo fin qui alla nostra economia e cercare di capire cosa potrà accadere da oggi in avanti. Insomma, crediamo sia meglio analizzare la politica economica nel suo insieme, per i risultati che ha dato e per quelli che, a invarianza di linea, potrà dare. Per farlo non servono i numeri del Def, ma quelli della congiuntura. I quali dicono che dopo sette di recessione in cui abbiamo perso oltre 10 punti di ricchezza nazionale, abbiamo bruciato un quarto della produzione industriale e abbiamo seppellito il 15% del nostro manifatturiero – un risultato che è meno peggio solo di quello della Grecia – ora è in atto una ripresa, ma che essa è labile, a macchia di leopardo e tutta appoggiata alle sole esportazioni, tanto da restare lontana, come peraltro era prima della crisi mondiale, da quella media europea (per non parlare di quella americana). Ora, il fatto che si stimi una crescita dello 0,7% nel 2015 e del doppio nei tre anni successivi – realistico il primo numero, un po’ meno il secondo – ci dice come, bene che vada, prima del 2022 non sarà recuperato quanto perso nella lunga stagione recessiva. Troppo, per disincagliare il Paese dal declino in cui è finito. Si dice (come ha fatto il ministro Padoan) che la stima inserita nel Def è prudente, e che in realtà la nostra ricchezza potrebbe aumentare del 2% l’anno. A parte che anche in questo caso ci vorrebbero cinque anni per tornare ai livelli (invero poverelli) del 2007, e che sarebbe la prima volta nella storia repubblicana che le previsioni governative si rivelano sbagliate per difetto, certo, è vero, potremmo crescere di due punti all’anno. Anche di tre, considerato che mai ci sono state, come ora, condizioni congiunturali così favorevoli: euro, tassi e petrolio bassi, liquidità senza limiti. Quindi non solo potremmo, ma dovremmo. Eppure non sta succedendo e, senza interventi forti, non succederà. Perché anche il governo Renzi, in perfetta continuità con quelli Monti e Letta, ha di fatto adottato una politica che non va al cuore dei problemi i fondo della nostra economia, lasciati in eredità – drammaticamente – dagli esecutivi che si sono succeduti nel corso della Seconda Repubblica. Carico fiscale complessivo eccessivamente alto: Renzi dice che le tasse non aumenteranno, ed è bene, ma non basta, serve ridurle drasticamente. Spesa pubblica abnorme, non solo per quantità ma soprattutto per composizione (tutta corrente e improduttiva, nulla in conto capitale per investimenti): Renzi dice che sarà tagliata, ma intanto un anno se n’è andato senza che sia stato fatto. Finanza pubblica ancora zavorrata dal debito: Renzi nel Def scrive che da qui al 2018 l’indebitamento scenderà di nove punti rispetto al pil, ma ammesso che sia vero, comunque non è sufficiente.
Non sappiamo se il presidente del Consiglio, di fronte a questi rilievi, ci iscriva d’imperio nel registro dei gufi, ma vorremmo che fosse chiaro che non ci sentiamo affatto all’opposizione di questo che continuiamo a ritenere l’unico governo possibile, e non solo per mancanza di serie alternative. Solo che vorremmo da un uomo di rupture come Renzi – e che ci volesse una rottura con il passato crediamo non ci sia italiano che non lo pensi – maggiore coraggio. Glielo abbiamo sommessamente consigliato fin dal primo giorno, e continuiamo senza alcuna iattanza a ricordarglielo.
Servono scelte più radicali. Serve un piano di abbattimento del debito sotto il 100% del pil, una riduzione forte del carico fiscale per le imprese e un piano di investimenti, pubblici e non. Servono cioè 600-700 miliardi. E un progetto paese in testa. Impossibile? No. O meglio, paradossalmente i soldi si possono anche trovare, tra patrimonio pubblico da monetizzare, spesa corrente da tagliare e capitali internazionali da intercettare. Sono le idee su che paese si vuole costruire su cui nutriamo seri dubbi, visto il tasso di populismo che inquina l’interrelazione tra sistema politico, media, mondo culturale e opinione pubblica. Ma non disperiamo.
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