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NELL’UOVO DI PASQUA CI VORREBE UNA NUOVA CLASSE DIRIGENTE

Speriamo che nell’uovo di Pasqua dell’Italia ci sia una nuova classe dirigente. Politica prima di tutto, ma anche economico-finanziaria. E, già che ci siamo, pure burocratico-amministrativa, che non è meno importante. Umh, par di sentire la bordata di obiezioni. La prima: c’è già Renzi, quarantenne e rottamatore, lasciamolo lavorare. Seconda obiezione: in giro non c’è nessuno, chi volete invocare? Terza: se davvero possiamo sceglierci la “sorpresa”, nell’uovo non è meglio trovare la tanto attesa e sospirata “ripresa”? Tutto vero, ma ci permettiamo di insistere, posto che comunque trattasi solo di un auspicio, visto che le classi dirigenti non s’inventano dalla sera alla mattina, né nascono sotto i cavoli. E insistiamo perché la fine della crisi – quella strutturale, ben preesistente al crack finanziario del 2008 che ci ha regalato sette anni di recessione – non potrà mai esserci senza l’avvento di un nuovo gruppo di uomini e donne capaci di dirigere il Paese. Dirigere nel senso etimologico della parola: condurre, indirizzare, guidare. Portare l’Italia fuori da una lunga stagione di declino, regalandole una fase “rinascimentale” e “risorgimentale”.

Che ce ne sia un drammatico bisogno pensiamo che lo abbiano ben presente tutti, signora Maria compresa. D’altra parte, basta vedere il livello infimo dei parlamentari e degli amministratori pubblici locali, misurare la pochezza dei dibattiti politici (specie quelli televisivi), osservare lo scadimento dei media e degli intellettuali. Così come basta voltare lo sguardo al capitalismo italiano, povero di imprese davvero globali capaci di stare sul mercato e di protagonisti all’altezza dei padri. Od osservare i comportamenti della burocrazia, che ormai ha come unico credo la più totale deresponsabilizzazione. Certo, ci sono lodevoli, in qualche caso straordinarie, eccezioni. Ma la regola, purtroppo, è quella. Segno di una decadenza profonda, che viene da lontano, e che richiede non solo di saper radere al suolo le cittadelle della resistenza conservatrice che si annidano ovunque nella nostra società e nelle istituzioni, ma anche – e non meno – di saper (ri)costruire un establishment, cioè élite politiche e poteri economici, basato sulla comune condivisione di un “progetto paese”. Si tratta di un processo che non si è ancora avviato, neppure dopo la fine cruenta della Seconda Repubblica. Come già nel 1992, si sono poste le premesse – con tutte le forzature che questi “passaggi” creano – senza però avere in mente come e con che cosa sostituire il “vecchio”. Renzi oggi, come Berlusconi ieri, impersonifica il passaggio, ma se, come capitò al Cavaliere, non capisce che non basta “buttar giù”, finirà con non rendere un buon servizio al Paese, e nemmeno a se stesso. I segnali che lui e noi corriamo questo pericolo ci sono, basta coglierli. Allora Berlusconi, pur giocando al “buon garantista”, cavalcò l’onda giustizialista e populista per avere consenso necessario a conquistare palazzo Chigi, e per rimanerci più a lungo possibile. Ora Renzi, che giustizialista non è, rischia suo malgrado di essere travolto dalla “nuova tangentopoli” in atto, non fosse altro che come segretario del Pd. Non sappiamo se s’illuda, come fece Berlusconi, di poter cavalcare l’onda senza esserne travolto, ma in tutti i casi dovrebbe far tesoro di quel precedente per capire che la distinzione tra lui come capo del “nuovo” Pd e il partito stesso con tutta la sua storia, nobile o ignobile che sia, non potrà reggere a lungo. Le vicende di queste ore – piovute addosso ad un Paese che vive immerso nell’ipocrisia e che quindi scambia il tema alto e nobile della determinazione di poteri che lo sappiano guidare con quello melmoso dell’intreccio tra affari e politica – lì per lì possono anche dargli qualche soddisfazione (D’Alema) o offrirgli qualche opportunità politica (l’annessione dell’Ncd), ma prima o poi presentano il conto, se non si costruiscono le vere condizioni per voltar pagina. L’apertura di nuovi fronti mediatico-giudiziari, infatti, ancora una volta ha distolto l’attenzione dai problemi veri, che non sono solo la patologia del malaffare come afferma chi non ha ricette, ma la totale destrutturazione del nostro sistema economico e il fallimento certificato di quello politico. Ma, come dimostrano i due decenni di Seconda Repubblica, sono queste ultime le frontiere su cui si gioca la sorte dell’Italia e, alla lunga, di chi la guida.

Dunque, noi di TerzaRepubblica auspichiamo che nell’uovo pasquale del presidente del Consiglio ci sia la consapevolezza che il suo (salutare) decisionismo debba essere indirizzato alla definizione di luoghi e metodi di creazione delle élite, non alla sua consacrazione come “uomo solo al comando”. Si può non andare a Cernobbio (anzi, si deve), ma la Leopolda come alternativa non basta. Si può disintermediare le rappresentanze sociali e degli interessi (Confindustria, sindacati, ecc.), ma perché non funzionano, non per abolirle tout court in nome di un preteso rapporto diretto con i singoli, persone o imprese che siano. Le democrazie mature, quelle dell’alternanza tra governi che hanno sostanziale continuità pur nelle diversità culturali, usano il sistema dello spoil system perché possono attingere a interi bacini di classi dirigenti. Noi, invece, abbiamo inventato l’alternanza obbligatoria (nel senso che chi sta al governo perde sempre le elezioni successive), portando alla guida del Paese figure di secondo piano, impreparate, che inevitabilmente si devono affidare a caste burocratiche imperiture. Ora Renzi può buttare a mare tutto questo, ma nello stesso tempo deve creare le condizioni perché si affermi un sistema nuovo. Se dobbiamo giudicare dalla legge elettorale che ha immaginato e che difende da qualsiasi mediazione, dalla cervellotica e inutile riforma del Senato e dal sistema politico anomalo che di fatto accredita parlando del “partito della nazione”, c’è poco da sperare. Ma chissà, magari nell’uovo di Pasqua… Auguri!

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