di Walter Ciccione
Non è infrequente che personalità italiane prestigiose all’estero, siano ignorate nella loro terra d’origine o che siano sconosciute ai loro connazionali.
E’ il caso di Luis César Amadori (Pescara, 28 maggio 1902 – Buenos Aires, 5 giugno 1977), che nel suo paese d’adozione ebbe un enorme prestigio, e fu considerato uno degli uomini più colti, raffinati e intelligenti del cinema latino.
Una personalità di interessi poliedrici, che si manifestarono nelle sue fatiche letterarie, nella brillante carriera di direttore cinematografico e nei numerosi testi di tango di grande successo, scritti da lui.
Ma, mentre nell’America Meridionale viene celebrato, i media italiani in genere e quelli abruzzesi in particolare, lo hanno ignorato. Eppure si tratta di un brillante italiano, che, come ogni emigrato, ha alle spalle una storia particolare.
Il racconto inizia negli albori del XX secolo, quando migliaia di disoccupati lasciarono il Belpaese per cercare al di la dell’oceano la possibilità di lavoro che non avevano in Italia. Tra loro c’erano i coniugi Amadori, il padre Aldo e la madre Silvina Ricciotti col loro unico figlio, Luigi Cesare Leo, di appena cinque anni di età.
La famiglia parte verso l’avventura di fare l’America in una nave scassata, ammassati in cabine maleodoranti, male alimentati, sopportando il lungo, noioso, interminabile viaggio. Gli Amadori sentono tanta nostalgia, e pur se sperano in un cambiamento sostanziale delle loro vite, provano anche un certo risentimento verso la terra che si lasciano alle spalle, perché sentono che in qualche modo li ha espulsi. Proveranno da allora un sentimento di amore-odio che li porterà a prendere la decisione di recidere ogni legame con la loro famiglia e con la loro città d’origine. Una avversione che Luis César ha assimilato fino a determinare incolmabili distanze, sia con Pescara che con i suoi corregionali in Argentina.
Raggiunta Buenos Aires, città popolosa e schiva, gli appena arrivati si predispongono ad affrontare il loro destino pieno di incognite. Avviati al difficile compito di superare l’amaro periodo dello sradicamento e di adeguarsi alla nuova realtà, la sfortuna si abbatte su di loro, con l’improvvisa morte di Amadori padre, lasciando la vedova senza sostegno d’animo o economico.
Però, grazie alla determinazione materna, il ragazzo abruzzese riesce a diplomarsi e a iniziare la carriera di medicina, che poi abbandona per dedicarsi appieno alle sue passioni, il giornalismo e lo spettacolo. Occupazioni queste che furono per lui mestiere e mezzo di vita.
Infatti, come autore, sceneggiatore, produttore e direttore cinematografico, Amadori raggiunse la cima della popolarità per la qualità dei suoi film. Una carriera con oltre 70 produzioni in gran parte in Argentina e anche in Messico e in Spagna.
Al Plata fu consacrato da “Que Dios se lo pague” (L’ultimo dei Montecristo), primo film argentino nominato a un Oscar, nel 1949. E poi “La dama de las camelias”, film che senza il nome del suo direttore, vinse il Golden Globe negli USA, premio che ancora oggi prestigioso quanto gli Oscar.
Il tango fu un’altra sua passione che, come in ogni iniziativa avviata nella sua vita, svolse con successo. Scrisse oltre trenta testi per altrettanti tango, tra i quali “Madreselvas”, “Confesión” e “Rencor”. In questa attività Amadori prediligeva musici di origine italiana come soci, quali Canaro, Sciammarella, Delfino, De Caro e Discepolo, tra gli altri.
Amadori aderì apertamente al peronismo per cui, alla caduta di Perón, fu incarcerato insieme alla sua coppia, l’attrice Zully Moreno e poi costretto all’esilio, in Spagna.
Grazie al sua talento, nella penisola iberica Luis Cesar Amadori diventò uno dei registi più apprezzati.
Durante il suo esilio girò vari film, tra i quali quello di maggior successo al botteghino: “La Violetera”, con Sarita Montiel, protagonista anche del seguente successo: “El último tango”.
Rientrato in Argentina, sposò la sua attrice preferita Zully Moreno, della quale era profondamente innamorato (fino al giorno della sua morte il 5 giugno 1977, gli mandava fiori rosse ogni venerdì), dalla quale ebbe l’unico figlio, Luis Alberto, mentre Zully morì nel 1999.
C’è chi assicura che durante il suo esilio in terra spagnola, il regista viaggiò a Pescara nel più assoluto anonimato, come se non avesse voluto violare un tacito accordo stabilito con la madre.
Vero o no, il cronista riporta la versione a sua conoscenza, anche perché come Amadori, nacque nella città di Gabriele D’Annunzio.
Conoscere la storia di una personalità prestigiosa come quella che ci occupa, dovrebbe portare le autorità abruzzesi, e in particolare quelle del Comune di Pescara, a riscattarla dall’anonimato e a rendere un meritato omaggio a colui che, pur se non esaltava le proprie radici, amava intensamente la sua città.
Luis César Amadori, una personalità che per i suoi enormi successi, dovrebbe far parte dell’elenco degli “Abruzzesi illustri”.