IL SECCHIO. Due atti di Fabio Salvati

Un secchio compare già nella prima scena, quando due personaggi si incrociano –in una cornice narrativa ricorrente- sul ponte di una nave diretta in Argentina (siamo nel 1950): sono Adolf Eichmann (in fuga in Argentina sotto il falso nome di Riccardo Klement) e un enigmatico professore di scienze.

L’azione prosegue nelle scene successive raccontando la vicenda del rintraccio, della cattura in Argentina del fuggiasco gerarca nazista, del suo interrogatorio e del suo trasferimento a Gerusalemme per il processo. Il racconto viene rappresentato in chiave grottesca (oltre che per quadri scenici “animati”) da due israeliti incaricati di costruire la forca in vista della esecuzione del condannato.

Nel secondo atto i primi dieci minuti sono occupati dal processo che si tenne tra il 1961 e il 1962 a Gerusalemme: la narrazione è contrappuntata dai discorsi di tre giornaliste osservatrici del processo. Tra loro Hannah Arendt, la famosa filosofa di origini ebraiche, inviata del New Yorker, che espone il suo punto di vista antropologico sull’imputato, in aperto conflitto con l’opinione corrente che si ostina a dipingerlo come “mostro”. Da queste osservazioni si dipana la teoria della “banalità del male”, feroce ritratto/ammonimento di una certa contemporaneità.

Il processo termina con la condanna dell’imputato mentre l’ultima scena vede i due personaggi della cornice narrativa ricorrente incontrarsi di nuovo. L’enigmatico professore può ora svelare la propria identità e confessare che il secchio, tornato al centro della scena, è la sua sporta per continuare a osservare –non visto dai suoi contemporanei- il futuro.

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