di Stefano Becagli
L’ultimo fatto di cronaca ha fatto tornare in auge il “Complesso di Medea”. In Psicologia con tale definizione si fa riferimento al quadro clinico nel quale una madre, in una condizione caratterizzata da tensione oppositiva e/o emotiva nei confronti del partner, riversa la propria collera e violenza sul figlio raggiungendo lo stadio finale dell’omicidio.
Tale gesto non lascia liberi da turbamenti, perché solitamente la figura della genitrice (madre) è associata al valore della protezione della propria famiglia e di conseguenza della propria prole.
Gli ultimi infanticidi avvenuti nel nostro Paese sono realizzati da madri giovani, che giungono all’atto estremo per ragioni formalmente inspiegabili, che frequentemente trovano una interpretazione nel “Complesso di Medea”.
Medea è una figura mitologica greca che sposa Giasone con il quale ha dei bambini, che la stessa Medea ucciderà per vendicarsi del marito che l’aveva lasciata perché si era innamorato di un’altra donna.
Le donne che si possono definire madri-Medea soffrono di ossessività e gelosie patologiche e nell’istante in cui non hanno più l’oggetto della loro ossessione scaricano tutta la loro violenza e insoddisfazione sui figli che, emblematicamente, equivale all’uomo che le ha abbandonate.
Spesso il “Complesso di Medea” è citata in relazione all’uccisione dei figli.
Nel 1988 Jacobs definisce il “Complesso di Medea” il comportamento materno finalizzato alla distruzione del rapporto tra padre e figli dopo le separazioni conflittuali: dove l’uccisione diventa simbolica e il fine non è uccidere il figlio stesso ma il legame che ha con il padre.
Sfortunatamente il vivere in un contesto contraddistinto da abusi in età evolutiva, può generare la manifestazione di alcuni meccanismi di difesa tipici della patologia bordeline, ad esempio l’onnipotenza, la dissociazione e la svalutazione, o differenti esiti a breve e lungo termine accertati sui figli, come futuro carattere manipolatorio, falso sé, depressione, egocentrismo, comportamenti autodistruttivi, scarsi rendimento scolastico e disturbi alimentari.
La figura della madre è da sempre associata a sentimenti e atteggiamenti di protezione verso la propria prole. Nelle madri-Medea si riscontra una metamorfosi crudele la felicità della maternità non è più quella di donare la vita bensì unicamente quella di possedere un figlio ideale. Nel caso in cui il figlio si allontana da tale ideale deve essere ripudiato. Tante depressioni post-partum affermano di tale rifiuto che trova la sua rappresentazione più malvagia nel cammino verso l’azione dell’infanticidio.
Il “Complesso di Medea” si caratterizza per l’eccessivo bisogno di controllo sull’altro, esercitato sulla vita della vittima. In aggiunta al bisogno di controllo, oltre che di possesso, un’altra particolarità è il bisogno di essere esclusivi ed unici; la percezione che tante madri hanno di non avere più con il passare del tempo una parte di se stesse è suggestionato dal proprio ruolo sociale.
Sul fronte psicologico, nell’istante dell’assassinio del figlio, la madre-Medea giunge al culmine del delirio di onnipotenza (specifico delle crisi psicotiche) e si autoproclama giudice di vita e di morte.
L’omicidio sembra essere totalmente in contrapposizione con il ruolo conferito oltre che al genere sessuale femminile in generale ed alla madre nel particolare come protettrice della famiglia. Pertanto il figlicidio è ritenuto contro natura nell’ottica della sopravvivenza della specie e di cui la madre è portatrice.
Nell’infanticidio (uccidere il figlio appena nato) è psicologicamente diverso che nel figlicidio (uccisione dopo che c’è stata una convivenza più lunga e si sono intessute relazioni derivanti inoltre dalla comunanza di vita). Sensazioni di estraneità e ostilità non sono infrequenti nelle donne che hanno partorito da poco; il neonato può essere percepito come oggetto e non come individuo, quale parte del corpo materno, di cui si ha la piena completa disposizione.
Nel versante soggettivo, il vissuto di certe infanticide pare essere, anziché quello di togliere la vita ad un essere vivente, quello di ostruire al neonato di iniziare la sua esistenza; l’infanticidio immediatamente dopo il parto può solitamente intendersi, nella dinamica psicologica, come un aborto tardivo, messo in pratica sotto la pulsione di contingenze “problematiche” che non consentono alla donna di affrontare la maternità.
Spesso si è reputato che la madre che realizza un figlicidio ha seri problemi economici, familiari, circostanze pregresse o attuali di tossicodipendenza, una famiglia di origine non accudente e abusi.
La teoria psicologica sostiene che le madri-Medea sono affette da ossessività e gelosia patologiche e nell’istante in cui non hanno più l’oggetto della loro ossessione (il partner) scaricano tutta il loro avvilimento e la loro aggressività sui figli che, emblematicamente, impersona l’uomo che le ha allontanate.
Le donne con il “Complesso di Medea”, quindi, hanno notevoli difficoltà ad accettare la separazione, ad affrontare la sensazione di depressione e di inquietudine che avvertono interiormente e a rielaborare la sensazione della perdita. In certe donne che hanno tolto la vita ai propri figli si riscontra la propensione a rimuovere tale ricordo dalla loro memoria.
Fra le varie cause che sono in grado di spingere una madre a commettere tale assassinio, si possono elencare le seguenti:
· L’atto impulsivo delle madri che sono solite a maltrattare i figli
· Le madri che negano la gravidanza
· Le madri che trasferiscono la volontà di uccidere la loro madre cattiva e tolgono la vita al figlio cattivo
· La vendetta della madre nei riguardi del partner
· Le madri che uccidono il figlio per non farlo soffrire
· Le madri che desiderano uccidersi e uccidono il proprio figlio
· Le madri che compiono sul proprio figlio le violenza che hanno subito
· Le madri che uccidono i figli non voluti
· Le madri che uccidono subdolamente il figlio
· Le madri che uccidono il figlio perché pensano di salvarlo
· La madri che trasformano i loro figli in capri espiatori
· L’agire omissivo delle madri negligenti e passive nel ruolo materno
Ulteriori concause del “Complesso di Medea” concernono una sensazione di inadeguatezza del proprio ruolo materno e l’esistenza frequentemente di patologie (organizzazione mentale destrutturata da traumi pregressi o deviata da disturbi di personalità come il disturbo dissociativo dell’identità e il disturbo borderline) e per di più fattori di rischio da prendere in considerazione come per esempio la depressione post-partum.
Tutti questi elementi intrecciati fra loro sono le fondamenta del “Complesso di Medea”.
L’intervento psicologico con le madri-Medea è volto al trattamento dell’accettazione della separazione, a contrastare il sentimento di annientamento e di inquietudine che avvertono dentro e a rielaborare il senso della perdita. Pertanto il percorso psicologico ha l’obiettivo di ricondurre alla mente il ricordo del proprio gesto e sostenere la madre ad affrontarlo.
Dottor Stefano Becagli – Psicologo
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