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QUESTA CALABRIA SUONA IL ROCK…

La proclamata morte del rock e l’altrettanto proclamata estinzione del disco, a vantaggio di forme di ascolto musicale più estemporanee e fondamentalmente slegate dalla musica stessa, hanno prodotto, paradossalmente, una noiosa inflazione di complessi che ripropongono alle nostre latitudini gli stili scopiazzati dalle tendenze anglosassoni. Assecondando le mode dettate dalla pubblicistica inglese e americana, senza personalità, a volte con testi approssimativi e con musiche posticce, direttamente raccolte dal canzoniere del gruppo indie di turno. Difficile che un’eccezione tanto clamorosa alla regola non scritta venga proprio dalla Calabria, regione che spesso ha fatto a pezzi la propria nobilissima tradizione musicale e altrettanto spesso si è trovata ingolfata nella corsa a seguire gli epigoni della nuova tendenza, a turno britannica, statunitense e via di questo passo.

Invece, il lavoro di un intrigante combo catanzarese, i Nimby, scardina il circolo vizioso e consegna col bel “Not in my backyard” un pugno di canzoni che si fanno cantare con sorprendente gradevolezza, senza cedere un passo al bisogno di ricerca e di profondità che anima la passione e fa vibrare ogni volta ai concerti, ai festival, negli spazi sociali o nei vernissage. Album vero e proprio, innanzitutto: mica male per giovani che producono e si producono nei circuiti indipendenti, dove, vuoi per i mezzi materiali vuoi per quelli artistici e di contenuto, si rischia di ammassare il primo dischetto utile con i soli cinque/sei pezzi buoni a disposizione. Composizioni che mischiano atmosfere di vago slancio ipnotico (la splendida Sleeping, dove ci si misura con approcci neopsichedelici e liriche molto poetiche vergate dal cantante del gruppo, Tommaso La Vecchia), spiazzanti frustrate tra ironia e inquietudine (Church of Reason, nella quale i ragazzi evitano il rischio, invero diffuso altrove, di virare a un suono radioheadesque senza personalità) e quasi ai titoli di coda, tutto fuorché scontata, la trasognata e meravigliosa Summer.

Progetto sostanzioso, e instancabile, che non conosce i riempitivi e non moltiplica all’ennesima potenza la stessa formula per portare a casa il risultato: varietà, ricerca, stile. Queste le contromosse dei Nimby per fare rock visionario e fluido come pochi, secondo quella lezione trasversale che va dai Soft Machine fino agli Afghan Whigs. Ottimi e sagaci i due chitarristi, Aldo Ferrara e Francesco La Vecchia, a non cascare nel prevedibile scopiazzamento del mito da “fucilieri in azione” (Wood e Richards), per cui il migliore del gruppo è chi fa la svisata più lunga o più fragorosa; suggestivo il lavoro di tutti i ragazzi che contribuiscono a irrobustire le venature elettroniche di un disco comunque sia energico e speciale (De Carlo e Scarfò, se seguiamo i credits dell’album). E un plauso ad personam al cantante: oltre ad essere un lyricist di specifica fantasia, nel cantato inglese svela una pronuncia troppo spesso estranea al rock nostrano, che si fa fregio del songwriting britannico per celare una (pienamente italica) mancanza di originalità, nell’approcciarsi alla sperimentazione senza perder di vista la canzone. E a proposito di “perdere”… questi Nimby, dal vivo, non possono proprio essere persi: i pezzi del disco lievitano sera dopo sera, andando a raccogliere tutti gli spunti che se, inespressi o proposti più asciuttamente in studio, su un palco sono destinati a vestirsi ogni notte di forme nuove e intimamente coerenti alla loro voglia di percorrere strade.

Domenico Bilotti

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