La bioetica del direttore di Avvenire

Trascrivo dalla risposta che il direttore di Avvenire del 2 settembre, dà ad un lettore: “Non si può e non si deve giocare con le parole: se poi un figlio nascerà, nascerà un altro figlio, perché quel figlio dichiarato “infelice” sarà stato irrimediabilmente scartato, rifiutato, ucciso. È duro da dire, ma è più duro da veder accadere, giorno dopo giorno, infinite volte. Ed è durissimo… sentirsi spiegare e rispiegare che quel mortale “no” viene detto «per il bene del bimbo». Un concetto capovolto di «bene» che nella nostra civile e progredita Europa fa sì che ci siano Paesi – ahinoi, come il nostro – dove da anni ormai i bambini con sindrome di Down vengono silenziosamente e inesorabilmente sterminati mentre sono ancora in grembo alle loro madri”.

Premesso che non è giusto impedire per qualsiasi motivo ad una donna di portare avanti la gravidanza, così come non è giusto costringerla a portarla avanti, la gravidanza, al direttore di Avvenire, vorrei dire che ha ragione, non si può e non si deve giocare con le parole, soprattutto quando si affrontano problemi di tale portata. Definire, quindi, un embrione “figlio scartato, rifiutato, ucciso” è un errore grave che nessun bioetico serio farebbe mai. “Figlio” e “uccidere” sono termini impropri. Così come non scriverebbe mai, un bioetico serio, che “bambini con sindrome di Down vengono silenziosamente e inesorabilmente sterminati”. Non si tratta di bambini, gentile direttore di Avvenire, si tratta di embrioni. Nella civile e progredita Europa, Hitler è scomparso da un pezzo. Quando si affronta una materia così delicata e importante, la proprietà del linguaggio è un obbligo. Altrimenti meglio il silenzio.

Miriam Della Croce

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