Qui Argentina: Giornata del’Italianità¡. La Divina Commedia dei Migranti

Qui Argentina: Giornata del’Italianitá. La Divina Commedia dei Migranti

Quanti abbiamo scelto l'Argentina come terra d'adozione, ci sentiamo gratificati per la riconoscenza del Paese nei confronti della nostra comunità, il cui contributo – assicurano – è stato fondamentale nella costruzione dell'identità nazionale.

Una gratitudine resa concreta con la legge dell'anno 1995, che il parlamento argentino approvò all'unanimità, decretando il “Giorno dell'Immigrante Italiano in Argentina”, da celebrare il 3 giugno, in coincidenza con il giorno della nascita di Manuel Belgrano, una delle personalità più decisive e apprezzate della storia argentina, figlio di Domenico Belgrano, un ligure stabilitosi nella seconda metà del '700 a Buenos Aires, dove era arrivato dalla natia Oneglia.

Un omaggio che ci onora, ancora di più, perché si tratta di un riconoscimento unico, visto che non è stato dato a nessun'altra tra le numerose comunità straniere che risiedono in terra argentina. Un gesto significativo che, però, non abbiamo ancora saputo valorizzare e meno ancora celebrare in tutta la sua dimensione.

Un privilegio che neanche il nostro paese d'origine ci ha concesso, visto che ad eccezione della “Giornata nazionale del sacrificio del lavoro italiano nel Mondo”, stabilito su iniziativa dell'ex ministro Mirko Tremaglia in memoria dei minatori morti nella tragedia di Marcinelle (Belgio), sciagura dove persero la vita 260 emigrati, non esiste al giorno d'oggi un'altra data che renda omaggio all'epopea di coloro che partirono, lasciando spazio ad altri italiani, e che con le loro rimesse contribuirono alla conquista del “miracolo italiano”, negli anni '50 e '60 del secolo scorso.

E' senz'altro una disdicevole mancanza che in qualche modo conferma l'indifferenza dell'Italia nei confronti di milioni di suoi cittadini sparsi nel mondo, buona parte dei quali, ciò nonostante, mantengono un inalterato amore verso la terra d'origine, anche quando si tratta di un affetto non contraccambiato.

Alla vigilia di un nuovo anniversario della “nostra giornata”, affiora l'anelito o il desiderio, di evocare e rendere un semplice omaggio a quanti dovettero emigrare. Un fatto che riguarda anche questo cronista il quale, ancora bambino, fece parte dell'ultima ondata che sbarcò al Plata negli anni '50. Soci di avventura, personaggi anonimi le cui epopee sileziose pur se non hanno avuto l'eco dei grandi avvenimenti storici, meritano di essere ricordati, dato che in loro possiamo ritrovare le immagini dei nostri nonni, zii, perfino dei nostri genitori.

L'ETERNO DILEMMA, EMIGRARE O RESTARE
L'emigrazione è un'esperienza che riguarda gli uomini e numerose specie animali. Un esperimento sociale che segnò a fuoco il nostro passato recente.

Sopravvisuti all'inferno di una guerra spietata, e senza troppe alternative per il sostentamento, una delle opzioni per migliorare le condizioni di vita era, appunto, espatriare, e pur se il prezzo da pagare, a cominciare da quello emotivo, era molto alto – smembramento della famiglia, perdita di amici, valori e abitudini, tra gli altri – affrontarono la sfida con coraggio, sperando in un fututo migliore.

L’espatrio è anche un fenomeno ciclico, oggi focalizzato nei migranti clandestini, come quelli che dal Messico tentano di travalicare la frontiera con gli Stati Uniti, o come le migliaia di disperati che dalle coste del nord africano, cercano di raggiungere la penisola, scappando dalla miseria, dalla disoccupazione e dalle guerre, lo sbarco in Lampedusa o in Sicilia, isole simbolo del paradiso nella Terra. Un sogno che spesso si tramuta in tragedia.

In questi tempi, per uno strano paradosso, l'Italia da paese di emigrazione è diventato terra d'immigrazione, si ricicla la tendenza di lasciare il Paese che oggi viene chiamata “fuga di cervelli” e che vede giovani laureati che vannno all'estero in cerca di opportunità.

E anche quando si svolge in un contesto diverso da quello vissuto dai loro antenati, “che partivano con la valigia di cartone” mentre oggi lo fanno col trolley zaino, la tablet e lo smartphone, e anche se questa generazione può comunicarsi più facilmente con la famiglia e gli amici rimasti in Italia, rispetto a quanto potevano fare gli emigrati di cinquanta anni fa, proveranno comunque la stessa malinconia e tristezza.

Emigrare è certamente una tra le decisioni più impegnative e trascendenti che può prendere una persona ed è per antonomasia intraprendere un lungo peregrinaggio in cerca di opportunità e di possibilità di raggiungere una vita migliore per se e per la famiglia. Una avventura che, oltre ad attese e speranze, implica anche sofferenze e paure

Solitudine, sradicamento, nostalgia e senso di colpa, per il fatto di partire, “abbandonando” i Cari che restano a casa, in attesa e preoccupati. E poi l’enorme responsabilità che implica arrivare in un posto diverso da quel che si è sognato, col rischio di vedere frustrati progetti e speranze.

Una decisione che ancora oggi nel Bel Paese su presta a controversie, tra quanti scelsero di emigrare e coloro che sono rimasti (forse “perché non hanno potuto, non hanno voluto o non hanno avuto il coraggio di farlo ”).

UNA DIVINA COMMEDIA
Sembra evidente che espatriare comporta un percorso imbarazzante nella cui descrizione molti cronisti usano espressioni quali “inferno”, “purgatorio” e “paradiso”, termini che, in modo istintivo, naturale, ci portano a pensare, fatte le dovute proporzioni, alla Divina Commedia, ll poema allegorico di Dante che, lungo i suoi cantici, ci porta in un percorso immaginario attraverso i tre piani biblici nei quali il poeta divide il mondo.

Nel caso del migrante il tragitto è reale, acerbo, attraversando un inferno fatto dall’ assenza di speranza imposta da una guerra, con il suo buio e il suo seguito di distruzione e di morte, per poi percorrere i cerchi del purgatorio, per espiare chissà quali colpe e rimarginare le ferite. Anche l’esilio volontario, a bordo della nave, fu una specie di purgatorio, anticamera del paradiso che si voleva raggiungere. E se nel caso di Dante esso è stato l’incontro con Beatrice, quello del migrante è stato, appunto, arrivare nella terra promessa.

Ma questa evocazione non sarebbe completa senza alcuni altri dettagli: ci fu un imbarco col conseguente triste addio ai familiari e al caro paese. E mentre la nave va, condividere a bordo giorni di riflessione, di introspezione, lo sguardo perso nell’orizzonte senza limiti, condividendo chiacchiere che, come in una specie di catarsi collettiva, ci rendeva più facile il consolarci stimolando speranze e fantasie, fino al giorno in cui si intravedeva finalmente la destinazione, nel nostro caso Buenos Aires, che con i suoi grattacieli che ci stupiva. Poi lo sbarco nel molo, l’indimenticabile “Dársena A”, nella quale migliaia di paesani e connazionali ci davano il benvenuto, agitando fazzoletti di ogni colore, tra i quali per noi, predominava il verde della speranza.

Nessuna destinazione è uguale ad un’altra, ma quanti abbiamo condiviso quella lunga traversata, portandoci addosso un bagaglio di sogni e consuetudini, abbiamo seguito strade parallele, per concludere ritrovandoci in questa terra generosa che abbiamo scelto come il nostro posto nel mondo, dove siamo stati accolti con i cuori aperti e da facce allegri e sorridenti.

Per quanto riguarda quei 700 compagni di viaggio e le altre decine di migliaia che arrivarono in queste terre, alcuni hanno fatto l’America, i più hanno conquistato una vita dignitosa, costituito le loro famiglie, educato i figli e visto crescere nipoti e pronipoti, che oggi li ricordano con ammirazione e gratitudine.

WALTER CICCIONE

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