Una lingua pragmaticamente imposta: i gigioni d’Italia, Paese occupato.

La lettera di Roberto Papa e la risposta di Sergio Romano, in allegato, sono un vero scandalo perché trattano con estrema superficialità la questione linguistica europea ed esprimono una visione molto corta e limitata del ruolo della lingua e della missione delle istituzioni europee che non sono quelle di una qualsiasi organizzazione internazionale ma di una organizzazione sovranazionale che « legifera ». Esse mirano a rafforzare quel lavaggio del cervello in corso, ormai da decenni, nei confronti degli Italiani, facendo apparire come naturale un processo di colonizzazione che naturale non è.

Sergio Romano parla di « lingua pragmaticamente adottata » là dove dovrebbe dire « lingua pragmaticamente imposta » mediante manipolazioni delle regolamentazioni vigenti e pressioni di ogni genere sui funzionari europei, fa inoltre delle affermazioni, quanto ai comportamenti linguistici del Belgio e della Svizzera, che non corrispondono alla realtà, realtà che conosco personalmente e concretamente, costituiscono invece la leggenda messa in circolazione dagli Anglo-Anglo-americani e in particolare dai capifila dell’economia e della finanza mondiale, annidati sulle alture di Wall Street, i quali mirano a colonizzare il pianeta e prima fra tutte l’Europa, imponendo attraverso la lingua la loro « forma mentis » lontana mille miglia da quella di stampo latino.

Dire che l’inglese è la lingua comune degli Europei, addirittura il nuovo latino, significa non aver capito nulla del progetto di integrazione in corso e del fatto che l’attuale deriva dell’Europa, la crisi, la perdita di valori, sono proprio imputabili allo stravolgimento impresso dalla « forma mentis » sterilmente commerciale, affarista, speculatrice, usuraia che l’inglese-americano veicola. Ancor peggio, significa essere d’accordo con coloro che la vogliono far da padroni e trasformare il processo di integrazione dell’Europa in un processo di colonizzazione economica e culturale che, come possiamo già constatare, comporta lo smantellamento dello stato sociale e della pubblica amministrazione, la trasformazione della democrazia in una oligarchia obbediente al potere economico e finanziario e la schiavizzazione dei lavoratori e delle masse operaie.

ALLEGATO

Lettere al Corriere Le lettere, firmate con nome, cognome e città, vanno inviate a:

«Lettere al Corriere» Corriere della Sera

via Solferino, 28 20121 Milano – Fax al numero: 02-62.82.75.79 @E-mail: lettere@corriere.it

oppure: www.corriere.it

oppure: sromano@rcs.it

Risponde

Sergio Romano

PER FARSI CAPIRE IN EUROPA ESISTE GIÀ UNA LINGUA: L’INGLESE

Ho assistito al dibattito televisivo tra quattro candidati alla presidenza della Commissione Europea nel quale è stata adottata la lingua inglese da tutti gli interlocutori. L’inglese è divenuto nella realtà fattuale la lingua franca nelle relazioni internazionali ed ho apprezzato il poter comprendere il dialogo senza la mediazione del traduttore. Poiché tuttavia, nell’attuale contesto storico-politico, guardo sempre con più interesse al modello confederale svizzero quale riferimento per gli sviluppi istituzionali della Ue, con particolare riferimento anche alla tutela riservata al trilinguismo elvetico, sono curioso di sapere quale lingua è utilizzata in Svizzera dal presidente, dal primo ministro e dai candidati nelle elezioni confederali quando questi ultimi si rivolgono alla intera popolazione.

Roberto Papa

roberto.adsl@tiscali.it

Caro Papa Anch’io ho visto alla televisione il dibattito fra i quattro candidati alla presidenza della Commissione (il quinto, Alexis Tsipras, capo del partito greco Syriza, era assente) e ne ho tratto la stessa impressione. L’uso di una lingua comune ha reso il dibattito efficace e spedito; persino troppo, a giudicare da un intervento della coordinatrice, costretta a rallentare i tempi per evitare che i numerosi interpreti (il dibattito è stato tradotto per il pubblico in tredici lingue) perdessero il filo. Esiste quindi un paradosso. Niente favorisce la costruzione di un’Europa integrata quanto l’uso di una lingua comune. Ma la lingua pragmaticamente adottata per facilitare le discussioni e i dibattiti è quella di due potenze – la Gran Bretagna e gli Stati Uniti – che considerano l’unità dall’Europa

con diffidenza. La prima è membro dell’Unione, ma il suo obiettivo, da quando decise di farne parte, è quello di evitare la costruzione di uno Stato federale. La seconda vede nell’euro un potenziale

concorrente del dollaro e reagisce con un certo fastidio quando la Commissione di Bruxelles applica alle aziende americane le regole del mercato unico. Ma l’utilità dell’inglese prevale su qualsiasi altra considerazione. La stessa conclusione vale per i Paesi in cui non esiste una sola lingua ufficiale, come il Belgio e la Svizzera. In Belgio le lingue ufficiali sono tre (francese, fiammingo, tedesco)

e ciascuno dei gruppi linguistici è autorizzato a fare uso della propria lingua nei rapporti con la pubblica amministrazione e il sistema giudiziario. Ma i francofoni che parlano il fiammingo sono pochi e i fiamminghi, anche quando parlano francese, preferiscono marcare il punto rifiutando di servirsene con i loro connazionali. Accade così che anche in Belgio, quando i valloni francofoni e i fiamminghi siedono intorno alla stesso tavolo per parlare di affari, la lingua utilizzata sia spesso l’inglese. In Svizzera non esistono rivalità linguistiche e ogni membro delle due Camere confederali

(il Consiglio nazionale e il Consiglio degli Stati) può fare uso della propria lingua. Ma la maggioranza del Paese parla tedesco e sono numerosi i casi in cui due svizzeri provenienti da aree linguistiche diverse finiscono per ricorrere alla sola lingua con cui entrambi abbiano familiarità e che è ormai il latino d’Europa: l’inglese.

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