Adolf Eichmann: l’insipida malvagità  di un Monsù Travet ne “Il Secchio” di Fabio Salvati


Questo signore la doveva pagare. Questo è certo! Compartecipe della lucida pianificazione di un progetto unico nella storia dell’umanità. Riempiva treni di “materiale” come usava definire lui l’ammasso di umori umidi ed increduli intorno alle proprie orbite e avvolti in una cappa di inverosimile sopore.

Destinazione sterminio. Niente male.

Il processo che volle Israele contro Eichmann fu uno scandalo. Cioè una lavatrice che avrebbe dovuto lavare con la schifezza le schifezze per dare un’apparente sembianza di civiltà ad un atto incivile, per niente processuale e tecnicamente imbarazzante.

L’autore de “Il Secchio”, Fabio Salvati, così fa dire per bocca di Leone ad Augusto uno dei due operai addetti alla costruzione della forca: «… ancora deve finire il processo e noi già stiamo preparando la forca?».

Certo. La messinscena era stata predisposta solo per l’occhio del mondo. Quell’uomo, quell’essere dalle mani sudate e dalla compiacenza del proprio ordine isterico, era un uomo morto prima ancora della sentenza di condanna.

Quel processo non andava celebrato ed in alternativa era da preferirsi un colpo in mezzo agli occhi in un vicolo cieco di Buenos Aires. Molto meglio.

Tutto quello che era il signor Eichmann si trovava concentrato nell’angolo sinistro della bocca nell’atto indisponente di fornire risposte a domande ritenute banali. Insomma un uomo di rituale. Esecutore pedissequo di liturgie comuni e ripetitive, uno capace di parlare nei minimi particolari di escrementi o di chiaviche putride sorseggiando seraficamente il proprio tè con biscotti.

Fabio Salvati, ha lasciato voragini nel suo racconto.

Volutamente. Le ha messe in scena affinché lo spettatore attento e critico, rendendosene conto ponesse, di volta in volta, domande a sé stesso e ai fatti. Dice ad un certo punto Monsù Travet Eichmann: «… io operavo solo dietro una scrivania e con il telefono». Chi fossero, poi i “fornitori di materiale” che alzavano la cornetta dall’altra parte del filo, lo spettatore se lo chiederà.

Questa è una questione spinosa. Assai spinosa. Una delle questioni tra le altre a parte l’incompetenza del Tribunale ed un nesso di causalità escluso, ignorato addirittura dalla deduzione giuridica del fatto e quindi della responsabilità penale.

Bah!

Sta di fatto, però, che l’autore de “Il Secchio” ci ha provato.

Ha provato a parlarne stando bene attento a non intaccare suscettibilità, dolori e ferite ancora sanguinanti.

Ci ha provato attraverso l’arzigogolo scenico sequenziale narrativo con punte di ironia e sarcasmo difficili porzioni da introdurre nell’argomento. Annah Arendt di Eichmann dice durante il processo: «Questo è un dibattimento contro un criminale che non immaginava di esserlo … e neppure se ne rende conto ora… »

Salvati ci ha provato ed è riuscito, con la sapiente regia di Daniela Coppola, attraverso le parole dei protagonisti ad uscire fuori dallo schema della certezza e dell’odio e, con lucido cinismo ha scarnificato e scoperto un volto, una storia di uno che si definiva mai nato ma “accaduto” senza passato. Stupefacente definizione peraltro per nulla banale! Uno che si relaziona, dall’inizio alla fine con un altro soggetto fuggiasco anch’egli con un passato ma senza futuro: Ettore prof. Majorana.

Nella gamma degli autori contemporanei, pochi sono gli esempi di tanto ardire.

Fabio Salvati è stato agevolato, però per chi lo conosce da vicino, da una onestà intellettuale cristallina e dal supporto bibliografico cui ricorre sempre e senza prescinderne lo studioso e l’osservatore che deve tradurre in scena un fatto ed un pensiero.

Sentiremo parlare sempre più frequentemente di lui. Chi scrive e studia proponendo merita visibilità ed incoraggiamenti.

Siamo sempre più poveri e gente come questa arricchisce.

Il lavoro va visto a cuor sereno in quanto le passioni saranno sollecitate dagli attori in scena, dai loro dialoghi e dalle coscienze di ciascuno spettatore.

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