Nonostante esista una diffusa storiografia, corroborata da precisi riscontri di lotte civili e sociali, è difficile tenere fermo troppo a lungo il parallelismo tra la situazione presente e quella del post-fascismo, quando fu piegato il Ventennio mussoliniano (e oggi pare scomparire quello berlusconiano). Certo, esattamente come per il fascismo, la caduta di un leader non implica travolgere la legislazione draconiana e le istituzioni culturali prodottesi; ancora, come ci segnala la testimonianza critica di molti autonomi della fine degli anni Settanta e dell’inizio degli Ottanta, la Resistenza fu fenomeno inizialmente limitato a poche avanguardie in Piemonte e a un confuso movimento di proselitismo comunista nell’Italia centrale.
Intercettò con tempo e pazienza la sollevazione popolare. Così, parrebbe che ad avere guidato la sostituzione degli esecutivi berlusconiani siano state elite limitate nei numeri e di specifica, e non sempre condivisibile, collocazione politico-sociale (legalitarista, intellettuale, persino aziendalistica).
Il dato strutturale più concreto, però, ci fa somigliare i tempi attuali ai primi del Novecento: quando più di un secolo fa le Sinistre erano divise in rivoli cangianti, incapaci di articolare quella piattaforma unitaria e libertaria forte, che fosse in grado di resistere alle pulsioni autoritarie scoppiate di lì a breve come bubboni e agli appetiti di un grande capitale industriale, in corso di accelerata finanziarizzazione (operazione tutta speculativa).
Per questo trovo particolarmente meritevole il lavoro culturale e politico portato avanti dal gruppo di Convergenza Socialista, una realtà nata, verosimilmente, per contrastare la stasi burocratica in cui era finito il Partito Socialista, tra l’assorbimento nel PD (bersaniano prima e renziano poi) e l’adesione tout court a logiche filo-governative, dove il governo diventava fine e non mezzo, in assenza di visioni a largo raggio.
Per tali ragioni, auguro a questo movimento grosse fortune: focalizza una frammentazione a Sinistra che non diventa pluralismo culturale e pari dignità di tutte le voci, ma drammatica afasia, nell’incapacità di agganciare i temi profondi di una situazione economica e civile, creata appositamente per ricacciare nella disperazione le tentazioni di partecipazione e sommovimento che venivano dal basso, contro l’1% che tiene sotto tacco il 99, sul piano della formazione, della cultura, persino dell’accesso alle cure e della regolamentazione delle relazioni affettive.
Le elezioni europee rifotografano questa frattura epocale e anzi ce la restituiscono aggravata, con un orizzonte rivendicativo incerto e la minaccia del protrarsi di un sistematico ridimensionamento dell’originario anelito federalista e internazionalista o, più modestamente, della mera tutela giuridica dei diritti acquisiti o dell’equo riconoscimento dei nuovi, emersi nella materialità degli ultimi due decenni.
Se CS ci promette di colmare questo gap, è perché non sono limitate né utopistiche le opzioni di riaggregare e ripensare un’appartenenza e una militanza, in chiave di adattamento metodologico dell’obiettivo socialista e di riscoperta e fuoriuscita (a Sinistra, ça va sans dire) della tradizione intellettuale e di lotta del socialismo italiano.
In bocca al lupo a Santoro e a chi lo sta seguendo, gettando le basi di un radicamento territoriale che è la fondamentale controprova di un’istanza tangibile, in grado di emergere e di offrire sbocchi a questi anni di crisi, maltolto, vessazione e impoverimento morale e mentale.
Domenico Bilotti
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