Come c’è fugacemente modo di ammettere in un intrigante lavoro discografico di Nick Cave, nella cultura comune è sovente utilizzato lo sgomento di Orfeo per Euridice quale parametro della desolazione e dell’amor perduto: sia che venga sventrato dalle donne dedite ai culti bacchici (irritate dalla sua fedeltà al ricordo dell’amata scomparsa), sia che si perda nei meandri della pulsione omoerotica e venga dilaniato dalle Menadi, furiose per via degli uomini traviati.
Ben meno percepiamo della fonte della lirica e della lira di Orfeo, la bella Euridice, nuovamente sommersa dal Regno di Ade per via di quell’amante genuinamente impaziente che si volta a guardarla, violando ogni patto, sul sentiero che riconduce alla vita. Che sguardo avrà catturato Orfeo prima di lasciarla alla dannazione e prima di dannarsi egli stesso, secondo modi e forme per cui il mito e la tradizione sono al solito discordi? La delusione dell’obbligo non adempiuto, il desiderio sensuale che cerca (e invano) di spezzare le catene, l’espressione amara e non sorpresa data dal vedere oggetto e soggetto del suo amore indulgere in quella spasmodica ricerca che pure era stata vietata ed esclusa (quasi fosse l’espressione omo-duale di una violazione della fedeltà coniugale)?
Viene voglia di recuperare un’opportuna intuizione della Okin, che, semmai, non va portata sino alle estreme conseguenze: molte delle culture che sono in piedi, che si reggono sulla riproduzione istituzionale dei propri meccanismi di controllo, ma anche di governo, di divisione sociale del lavoro, di consolazione, si basano, si fondano o si mantengono attraverso un approccio vessatorio alla condizione femminile.
E che dire del modo in cui la nostra cultura ha finito per interpretare l’altro personaggio mitologico di Medusa? Nell’iniziale racconto popolare la sappiamo bruttissima, ma, giusta l’intuizione di Foucault (non del tutto rigettata da un Vernant), possiamo ritenere che una vetusta tradizione di Medusa come “brutta” sia frutto della sua condizione di figlia incestuosa (dei mostri Forco e Ceto): pratica culturale che si faceva spazio nello stigma radicale dell’ancestralità e, ci insegnerà secoli dopo la tragedia, portatrice di sventure che, contro ogni umana tentazione, scagliano il reo nella bocca della perdizione.
Serve tutto il talento del pittore Arnold Bocklin per dirci che Medusa, da mostro come da beltade concupita da Poseidone, ci appare, comunque sia, bellissima -di quella diversità che rompe le omologazioni e regala allo sguardo la bellezza del nuovo.
E perché la giovane sventurata, unica non immortale della sua generazione, è punita fino ad essere groviglio di vipere velenose in testa, con denti mutati in zanne orrifiche in una bocca che sbava?
Anche in questo caso, pare giungerci paradigmatica una visione di condanna dello sguardo femminile che si protrae per tutta la cultura occidentale, secondo un duplice ordine di motivi: la metamorfosi è ordinata da Atena (dea di saggezza, sapienza e difesa, in parte estranea alla maschile furia di un Ares, eppure anch’ella coinvolta in guerre, lei nata senza vera generazione, vero parto, dalla testa di Zeus, già munita di scudo). Medusa si è per pudore riparata il volto, posseduta dal signore dei mari, sotto un’egida di Atena. Il racconto assume, nel congresso carnale di Poseidone e Medusa, per questo celamento occasionale dettato dalla pudicizia, una componente di profanazione: e da lì in poi il terribile sguardo di Medusa ha il dono di pietrificare.
Il Cristianesimo delle origini, come opzione di rinnovata radicalità veritativa, di tensione verso i bisognosi e, diciamo con tutte le approssimazioni del caso, persino di sovversione sociale, cambia radicalmente molte prospettive; la morale che ne è tratta, però, dalle sue gerarchie o, ancor più, dai suoi dottrinari non sempre riesce ad essere discontinua a danno delle convenzioni sociali, dei rapporti di sudditanza e subordinazione, delle ipocrisie diffuse.
Sull’interdetto culturale che grava sulla seduzione femminile, un esempio a noi assai più vicino, e che registra i temi innovativi del Cristianesimo ma mescolati col profondo ostracismo vessatorio con cui vennero riassorbite certe istanze, è dato da due opere di Caravaggio: la Madonna dei Pellegrini e la Madonna dei Palafrenieri.
Una premessa: sugli artisti pendono condanne che mescolano, in sede di motivazioni, scelte etiche e stili di vita. Basti pensare al mite Masaccio, morto sui ventisette anni (progenitore di Janis Joplin e Kurt Cobain?), sul cui soprannome il Vasari, in fondo, vuota il sacco: non personaggio vizioso, o, comunque sia, non più vizioso della gioventù toscana e, meglio, aretina, di quegli anni, ma per troppi tanto generoso e preso dalle Arti da risultare trascurato, persino sui debiti di gioco. Per la nascente morale della reazione, se proprio devi scendere fino ad una taverna, riscuoti quello che ti spetta, diamine!
Caravaggio, a livello di scelte esistenziali e comportamentali, poco meno di due secoli dopo, fu assai peggio del genio aretino; libertario e irrequieto, la dominante storiografia (quella che lo avversò per almeno un secolo e mezzo, quella che per almeno un secolo e mezzo lo riscoprì) ce lo descrive consumato dai propri stessi demoni. Eppure, il Caravaggio studiava il pauperismo e vedeva scalzi i pellegrini in processione alla sua Madonna popolana, com’ella stessa che rivolgeva loro uno sguardo interlocutorio -ma non di condanna.
Gesù non sembra un bambino, ma un ragazzetto assai cresciuto, difficile pure da portare in braccio, almeno secondo una visione schematica della maternità che si chiude all’atto generativo senza null’altro avere a che dire; la modella usata da Caravaggio è la prostituta Lena, probabile amore, oltre che furtivo desiderio di notti colme di piaceri.
E la condizione lercia e verosimilmente sottoproletaria (non proletaria: ultimi tra gli ultimi) dei pellegrini ci dice qualcosa anche sulla religiosità popolare: mentre l’Occidente fa pace con la Teologia della Liberazione, in nome di un Papa latino-americano che pure alla Teologia della Liberazione mai aderì, i poveri e gli sfruttati del subcontinente si rivolgono al proselitismo enfatico dei movimenti pentecostali.
Dal rifugio esigiamo, sin troppo spesso, condanne certe e promiscue solennità.
Inevitabile, poi, nella Madonna dei Palafrenieri, la rude condanna dei committenti (appunto, i Palafrenieri Pontifici): e stavolta motivo del gran rifiuto non è solo lo sguardo, non è solo il paradigma, cioè la femminilità accogliente e “matrilineare” che le difficoltà della vita hanno messo ai quadrivi e agli angiporti a prostituirsi. Persino quel ragazzetto, in nudo frontale. Ancor più: la scollatura generosa della Madre di Dio, che piega il vestiario e squarcia al centro di sé con le forme l’ombra del petto abbondante. Una forma di aberrazione dell’Arte o di incomprensibile retro-pensiero della Censura?
Queste riflessioni non valgono da catalogo chiuso. Copiosi gli esempi che potremmo trovare di miti greci, reinterpretati nella modernità come istanze disciplinari e di costrizione, o le forme di genio e di arte che i secoli della Riforma e della Controriforma hanno piegato alla gogna, per colpa del loro nonconformismo.
La bellezza dello sguardo femminile ci protegge. Cacucci ripeterebbe: in ogni caso nessun rimorso.
Domenico Bilotti