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Il Vangelo dall’angoscia del venerdì passa alla gioia della domenica

Il filosofo Umberto Galimberti. Su D – La Repubblica n. 744 del 28 maggio 2011, scriveva: “A differenza della cultura greca, la tradizione giudaico-cristiana attribuisce al dolore un “senso”: quello di espiare la colpa originaria e quello di costituire una caparra per la vita ultraterrena che non conosce il dolore, e in vista della quale diventa più sopportabile il dolore su questa terra concepita come semplice transito. Una volta che il dolore non appare più nell'insensatezza dell'ineluttabile, com’era per i Greci, ma viene iscritto in quell'orizzonte di senso che lo configura come pegno per la vita eterna, il dolore, se non è addirittura amato come riteneva Francesco di Sales là dove scrive che “il vero amore si dimostra nel patire”, certamente diventa più sopportabile proprio perché ad esso gli si assegna un senso e lo si iscrive nello scenario della redenzione che, a partire da Cristo, si compie nel dolore. Questa è la ragione per cui io considero il cristianesimo una religione del dolore. E basta visitare qualsiasi chiesa e vedere di quanto dolore grondano i quadri e le pale che la decorano per averne una conferma”.

Il filosofo coglieva l'aspetto malato, alle volte addirittura aberrante della religione cristiana, ma il cristianesimo in base al Vangelo non è questo. Il Vangelo, dall'angoscia del venerdì passa alla gioia della domenica. Molti cristiani sono rimasti fermi al venerdì. Nel Vangelo non si parla assolutamente del dolore come “espiazione di una colpa originaria” da parte degli uomini. E' Gesù che col suo sacrificio unico ed irripetibile, redime l'umanità. Il dolore in sé non ha senso alcuno, e soprattutto non ha senso il dolore dei bambini. Quando Gesù dice: “Beati voi che ora piangete, perché riderete”, non vuole dire che il pianto in sé rende beati ed avvicina a Cristo, giacché se così fosse, il peggior delinquente mai pentito, che piange e che soffre, acquisterebbe meriti per il paradiso e sarebbe vicino a Cristo. Parimenti, quando Gesù dice: “Guai a voi che ora ridete, perché sarete tristi e piangerete”, non significa che coloro che gioiscono saranno privati della vita eterna. La distinzione non è tra chi soffre e chi gode, ma tra giusti e ingiusti. Accade spesso che i giusti abbiano a soffrire, anche a causa della loro bontà d’animo, per non essersi messi dalla parte dei forti, dei potenti, dei dominatori, per non aver reagito con la violenza ai soprusi.

Il dolore, in un'ottica autenticamente cristiana, ha un significato soltanto quando è l'inevitabile conseguenza dell'amore per il prossimo, per la giustizia, per la verità. Questo, il senso dell'invito di Gesù: “Se uno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”. Il Signore sacrifica la sua vita per necessità . La croce per la croce non ha senso. L'imitazione di Cristo deve avvenire nella sostanza. Amare la sofferenza, patire, al fine di “costituire una caparra per la vita ultraterrena”, è insensato.

Renato Pierri

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