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LEGGE ELETTORALE, SE NON ORA QUANDO?

Quattro telegrammi e una postilla sulla legge elettorale. Primo: anche a me non sfuggono taluni profili critici della bozza in discussione e dunque l’esigenza, se possibile, di porvi rimedio. In particolare, la norma (mancante) sulla parità di genere; le primarie obbligatorie o almeno facoltative per rispondere all’obiezione comunicativamente più forte, quella sul parlamento dei nominati; le soglie da ritoccare. Sottolineo ritoccare: una riforma efficace non può accontentare tutti, esige una ragionevole misura di semplificazione del sistema politico. E tuttavia non è pretesa esorbitante una norma, speculare alla salva-Lega, che metta anche il PD in condizione di disporre di alleati, peraltro in coerenza con la visione enunciata da Renzi di un bipolarismo che non si spinga al bipartitismo. Ovviamente le auspicabili correzioni non possono fare saltare l’accordo complessivo. Secondo: ciò detto, l’impianto sortito dall’accordo politico mi sembra una mediazione accettabile, un compromesso ragionevole. Sia chiaro: per chi per davvero opta per il bipolarismo e l’idea – qui sta la discriminante – che non si possa regredire rispetto alla prassi secondo la quale, di regola, sia dato modo ai cittadini, con il loro voto, di scegliere i governi, che pure devono poi essere insediati in conformità a regole e procedure costituzionali. Naturalmente, la soluzione non può piacere a chi, più o meno esplicitamente, si ispira invece a un sistema multipartitico a base proporzionale, nel quale i governi possano benissimo costituirsi e ricostituirsi in formato diverso dopo il voto. Costoro avrebbero fatto meglio a ingaggiare un confronto aperto e maiuscolo sul modello politico, anziché concentrarsi su profili minori e controversi come le preferenze. Non mi convince Renzi quando, esagerando, sostiene che i suoi due milioni di elettori avrebbero consacrato esattamente questa specifica riforma elettorale. Ma è indubbio che essi abbiano avallato un indirizzo e un modello politico: quello del bipolarismo, di una democrazia competitiva e governante. Terzo: se non ora quando? La posta in gioco è alta e sistemica. Se il pacchetto delle riforme naufragasse – e la legge elettorale ne è l’incipit e il presupposto – gli effetti sarebbero dirompenti e appunto sistemici. Sul governo, sul PD, sulla legislatura, persino sul Quirinale, che al varo delle riforme ha legato il suo secondo mandato. Quarto: non è concepibile che un partito e un gruppo parlamentare degno di questo nome possano concedere che si proceda con emendamenti di sostanza in ordine sparso. Non è la bioetica, ma la più politica delle questioni, sulla quale si giocano visione e linea politica del partito. Sul punto, sono sicuro che convenga la minoranza interna al PD, decisamente sensibile all’idea che il partito è una cosa seria: per dirla con Bersani, un soggetto collettivo e non uno spazio politico. Quinta ed ultima: una postilla sulla vexata quaestio del rapporto tra PD e governo. Sembra che finalmente sia in corso un chiarimento risolutivo. Il problema del governo Letta non è il premier e neppure il programma e la squadra, ma il deficit di forza e di sostegno politico adeguati a corrispondere ai problemi del paese e ad accompagnare riforme di portata storica. Mi rifiuto di credere a una doppia malignità: che, con la staffetta a palazzo Chigi, Renzi si mostrerebbe meno risoluto sulla priorità dell'Italicum; e che le irrefragabili obiezioni etiche e costituzionali sollevate dai critici dell’Italicum, come d'incanto, sarebbero svanite. Come dire che tutte le dispute sulla legge elettorale sarebbero strumentali e, magari, ciò che più conta per parlamentari e partiti è la continuità della legislatura.
Franco Monaco

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