Due ulteriori contributi sul tema del Ddl 54, rispettivamente della prof.ssa Di Cesare, che insegna Filosofia Teoretica all’Università  La Sapienza, e dell’avv. Di Porto, Assessore alle politiche comunitarie e ai rapporti con UCEI della Comunità  Ebraica

Prof.ssa Donatella Di Cesare
Filosofia teoretica, Dipartimento di Filosofia – Sapienza Università di Roma

Il negazionismo è un fenomeno politico che è andato assumendo in Italia proporzioni sempre più inquietanti, soprattutto nell’ultimo ventennio. Lo spettro dell’appartenenza è molto ampio: va dai fascisti ai neonazisti, cioè agli hitleriani di terza e quarta generazione, dai razzisti ai cattolici integralisti, ai filoislamici, fino agli adepti oscuri di un’estrema sinistra antisionista che finisce per essere reazionaria.
Li accomuna la negazione che può essere sintetizzata così: le camere a gas non sono mai esistite, lo sterminio non ha avuto luogo. La Shoah sarebbe una «favola» che gli ebrei vanno raccontando da decenni. Il cardine del negazionismo è il complotto. Già attivi in precedenza, attraverso una grande quantità di periodici e pamphlet, i negazionisti hanno moltiplicato la loro presenza grazie ai nuovi media. Il caso più eclatante è quello del forum neonazista Stormfront. La negazione dello sterminio, che si staglia sullo sfondo degli insulti antisemiti, diventa anche derisione, scherno, oltraggio alle vittime.
Chi pensa che il fenomeno non sia preoccupante non frequenta molto internet dove i negazionisti trovano estro e ispirazione per rendere attuali e concreti i loro fantasmi proprio là dove reale e virtuale, prova e rumore, ragionevole e assurdo, vengono equiparati.
Non deve sfuggire il nesso di complicità che lega la negazione di oggi all’annientamento di ieri: i primi negazionisti sono stati i nazisti stessi che fecero saltare le camere a gas e i crematori. Il nazismo ha tentato di occultare il crimine, già prima di compierlo, tra le pieghe delle parole. Basti pensare al progetto Nacht und Nebel, la notte e la nebbia che dovevano avvolgere la lingua per far sparire le tracce delle vittime prima ancora che i misfatti fossero commessi Grazie a questa cancellazione preventiva il compito dei negazionisti diventa semplice. D’altra parte chi nega oggi intende perseguire la politica di annientamento, in certo modo portarla a termine. Che cosa significa, infatti, negare l’esistenza delle camere a gas? Significa insinuare che Hitler non abbia raggiunto la meta, vuol dire assumerne la necessità nel domani. Ecco perché ho ritenuto e ritengo che sia fuorviante interrogarsi sui modi della negazione. La domanda importante a mio avviso è perché? Perché negare oggi la Shoah? Qual è il fine che i negazionisti perseguono – pur se da fronti diversi?
Il negazionismo non è un’opinione come un’altra. Piuttosto è una dichiarazione politica. A ben guardare il negazionismo è la soppressione stessa delle condizioni per un confronto. Accettare il negazionismo come opinione vuol dire accoglierlo nell’ambito del discorso democratico. È venuto però il momento di riconoscere che il negazionismo è un totalitarismo del pensiero perseguito in una salda continuità con il totalitarismo del passato. Coloro che negano perseguono una strategia precisa, sono armati di convinzioni.
Nel 2008 l’Unione Europea ha approvato una norma che ingiunge a tutti gli stati di dichiarare un crimine la negazione del crimine. Nel contesto italiano la norma non ha avuto sinora effetti. Né si è sviluppato, come è avvenuto altrove, soprattutto in Francia, un dibattito adeguato. Eppure proprio in Italia sarebbe indispensabile difendere lo «spazio pubblico» – come lo ha inteso Hannah Arendt – che oggi si estende anche al mondo virtuale. Come tutelare altrimenti il diritto dei più giovani nelle scuole, nelle università, nella rete estesa dei nuovi media?
Finora forse si è affermato un indubbio ottimismo. Si pensa che il fenomeno abbia nel nostro paese dimensioni ridotte, emarginate e facilmente emarginabili dallo spazio pubblico. Ecco perché ha prevalso la tendenza a isolare i singoli episodi, letti come spiacevoli incidenti, dovuti in gran parte a ignoranza, disinformazione, oblio. Il che vorrebbe dire implicitamente che i negazionisti italiani, o quelli importati, negano perché non sanno. In tal modo appaiono un residuo arcaico e quasi inspiegabile del passato fascismo. La risposta sarebbe allora l’educazione e la cultura. Come non concordare d’altronde con questa indicazione? Ma chi nega non ignora. Che dire se – come è avvenuto negli ultimi anni e mesi – a negare sono insegnanti di liceo o docenti universitari? Che posizione assumere? Come reagire? Con quali mezzi? Perché mai dovrebbe esserci un’alternativa tra risposta culturale e intervento politico? Perché non auspicare una sinergia, come avviene nella maggior parte dei paesi europei?
L’Italia, infatti, costituisce una sorta di bizzarra eccezione, perché la discussione sul negazionismo, riconosciuto già da tempo come reato in Francia e in Germania, ha preso una piega singolare per via degli «storici» che, esprimendo timore «per la libertà di ricerca», minacciata da possibili invasioni di campo, si sono schierati contro quella che definiscono una «verità di stato». Si assume quindi che gli storici siano “esperti” del settore, che la storia abbia una “oggettività” scientifica che si impone da sé.
Ma è una terribile ingenuità credere che con un dato in più si smonti il negazionismo. I negatori continuano a negare. E c’è di più: il dibattito storico e le analisi semiologiche finiscono per legittimare i negazionisti, come se si trattasse davvero di ricercatori che seriamente hanno di mira la verità. Se ovunque è un errore lasciare agli «esperti» la decisione ultima, nel caso della storia sarebbe esiziale. Perché la storia è il tessuto della nostra esistenza. Siamo fatti di storia. E perciò la Shoah richiede la risposta e la responsabilità di tutti i cittadini. Come ha scritto Lévinas: «nessuno può rifiutare i lumi dello storico, ma pensiamo che non siano in grado di risolvere tutto».
Senza nulla togliere alla ricerca storica, la cui necessità va ribadita proprio al fine di conoscere e studiare meglio lo sterminio, occorre tuttavia sottolineare che è sbagliato il modo in cui viene posta la questione della libertà di opinione. È proprio un liberalismo astratto, di matrice ottocentesca, che ha portato ad Auschwitz e che in seguito non è stato in grado di riflettere su quella frattura nella civiltà occidentale. Sorprende, dunque, che ci si possa ancora richiamare a questo liberalismo. Ma a ben guardare fa acqua anche la difesa del principio di libertà d’espressione. Proprio perché la negazione non è né una visione critica né una re-visione, non ha senso parlare di una «opinione» che si scontrerebbe con una «verità di stato». Il negazionista non nega una verità, ma annienta il luogo della condivisione. Solo se si tutela questo luogo, il dialogo che fonda la democrazia, si consente una polifonia di interpretazioni. Perché la verità si alimenta di voci discordanti.
Lo sterminio degli ebrei d’Europa è stato il risultato estremo di una politica del crimine, quella del nazismo, che non è passata e superata. L’hitlerismo intellettuale, in tutte le sue forme, non è stato sconfitto. L’umanità dopo Auschwitz porta impressa in modo indelebile la camera a gas. Negare Auschwitz non è negare un evento storico come un altro. La negazione di questo crimine è a sua volta un reato che ha un rapporto di collusione con le politiche criminali. Di fronte a questa minaccia nel futuro siamo tutti chiamati alla responsabilità. Perché un mondo in cui venga negata l’esistenza delle camere a gas è un mondo che già consente la politica del crimine.

Avv. Joseph Di Porto
Assessore alle Politiche comunitarie e rapporti con Unione delle Comunità Ebraiche Italiane

Collegare il reato di negazionismo ad una pretesa violazione dell’art. 21 della Costituzione mi sembra davvero una operazione estremamente azzardata.
Chi nega l’evidente realtà storica di un genocidio di massa, tanto più quando sono vive le dirette memorie delle vittime non solo finisce per esaltare le pretese motivazioni ideali di chi ha giustificato i massacri ma offende la memoria stessa dei padri costituenti.
L’art. 21 va letto tutto e così come appare inconcepibile sostenere giuridicamente che esso non presenta alcun limite, si deve riconoscere, seguendo le indicazioni della Corte Costituzionale che, il limite è quello del rispetto della persona, della sua dignità del suo modo di essere e di associarsi come impongono gli art. 2 e 3 della Costituzione.
Del resto anche gli artt. 9 e 10 della Convenzione Europea dei diritti umani prevedono restrizioni e limitazioni che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e della libertà altrui. Ed è la dignità della persona che è centrale nella Carta dei diritti fondamentali dell'UE .
Negare l’esistenza della Shoah significa offendere la memoria attuale delle vittime, vilipendere il senso stesso della convivenza civile e introdurre il dubbio che il fatto sia stato invenzione, che i numeri siano stati alterati ,che l’eccidio non ci sia stato e che quindi le vittime ed i loro discendenti siano paradossalmente e inconsapevolmente corresponsabili di un falso storico (non si tratta di ignoranza).
Il negazionismo inverte il rapporto tra vittime e carnefici e paradossalmente pone la vittima (e i discendenti dei milioni di vittime) nella posizione di millantatori, offendendone la dignità e la memoria personale e collettiva. Negare la memoria dell’eccidio, negare l’organizzazione e la pianificazione di tutte le violazioni dei diritti umani oggi concepibili non è una opinione, non è una critica che può essere garantita, così come l’ordinamento giuridico non può
difendere ogni espressione, anche quelle offensive e pericolose per la convivenza civile. Negare la verità significa offendere il senso stesso della giustizia.
Sovrabbondanza di norme penali?
Alcune ,certamente sono inutili, ma altre come questa, corrispondono a beni giuridici internazionalmente avvertiti e condivisi, prova ne sia l’art- 6 del protocollo aggiuntivo della Convenzione di Budapest sul cyber crime (2003), che certamente potrebbe offrire al nostro legislatore un importante spunto di riferimento.

Article 6 – Denial, gross minimisation, approval or justification of genocide or crimes against humanity
1 Each Party shall adopt such legislative measures as may be necessary to establish the following conduct as criminal offences under its domestic law, when committed intentionally and without right: distributing or otherwise making available, through a computer system to the public, material which denies, grossly minimises, approves or justifies acts constituting genocide or crimes against humanity, as defined by international law and recognised as such by final and binding decisions of the International Military Tribunal, established by the London Agreement of 8 August 1945, or of any other international court established by relevant international instruments and whose jurisdiction is recognised by that Party.
2 A Party may either a require that the denial or the gross minimisation referred to in paragraph 1 of this article is committed with the intent to incite hatred, discrimination or violence against any individual or group of individuals, based on race, colour, descent or national or ethnic origin, as well as religion if used as a pretext for any of these factors, or otherwise
b reserve the right not to apply, in whole or in part, paragraph 1 of this article.

http://conventions.coe.int/Treaty/Commun/QueVoulezVous.asp?NT=189&CM=8&CL=ITA

Il tema era ed è incandescente. Ma io resto della mia opinione, limitandomi a rinviare al “Caso Garaudy” sottoposto all’esame della Corte Europea dei diritti umani: (sez. IV, 24/06/2003 – Roger Garaudy c. Francia – in Giur. It., 2005, 2241), secondo la quale “è irricevibile il ricorso di un cittadino che lamenta la lesione del proprio diritto di espressione a causa della condanna penale inflittagli dalle autorità nazionali per aver manifestato opinioni negazioniste dell’Olocausto. Tale condotta, sostiene la Corte, integra un abuso del diritto di espressione previsto dall’art.10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, giacché, sostenendo la negazione o la revisione dei fatti storici definitivamente stabiliti, si rimettono in causa i valori che fondano la lotta contro il razzismo e l’antisemitismo e ciò comporta un pericolo per l’ordine pubblico. Conseguentemente, il suo perseguimento da parte della legislazione nazionale costituisce un’ingerenza legittima ed una misura necessaria in una società democratica”. Da ciò ne discende che il diritto alla libera manifestazione del pensiero, tutelato dall’art. 21 della Costituzione, non giustifica comportamenti che, pur esternando convinzioni personali, ledano altri principi di rilevanza costituzionale. Pertanto, dal momento che le norme per la repressione delle forme di discriminazione razziale sono in attuazione del principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della Carta Costituzionale, le eventuali limitazioni ad esse imposte, risulterebbero ampiamente giustificate. Il rigetto della realtà storica della Shoah non può in alcun modo essere tutelato dal diritto alla libertà d’opinione, come peraltro già affermato da Jean-Paul Sartre nel 1954 quando, all’apparizione dei primi movimenti negazionisti, sosteneva che «exprimer une opinion est une chose, provoquer à la discrimination en est une autre […] l’antisémitisme ne rentre pas dans la catégorie de pensées que protège le droit de libre opinion».

Ad ogni modo il testo approvato in sede di Consiglio d’Europa nel 2003 è già una norma penale straordinariamente equilibrata che correttamente inquadra il reato non tanto alla mera negazione di (qualsiasi) fatto storico di eccidio ma esclusivamente ai crimini giudicati tali dai Tribunali internazionali, il che dà alla norma una dimensione (giuridica) correttamente riferita ai giudicati internazionali. Il che, credo, ridimensiona molte polemiche attuali.

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