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Sicurezza e privacy. Per la Corte di Giustizia UE gli stati europei possono legittimamente inserire le impronte digitali nel passaporto. Ma non è possibile la schedatura e una database dei dati biometrici

La Corte di Giustizia Europea con la sentenza pubblicata il 17 ottobre dalla quarta sezione nella causa C-291/12, ha ritenuto legittimo che uno Stato membro possa inserire nel passaporto le impronte digitali del titolare. Il rilevamento e la conservazione nel passaporto delle impronte digitali lede i diritti al rispetto della vita privata e alla tutela dei dati personali, ma tali procedure sono giustificate dalla necessità di impedire qualsiasi uso fraudolento dei documenti.

Sulla scorta del regolamento 2252/2004, i magistrati comunitari hanno ricordato che tale norma stabilisce che i passaporti presentino un supporto di memorizzazione altamente protetto che contiene, accanto all’immagine del volto, due impronte digitali, che possono essere utilizzate al solo scopo di verificare l’autenticità del passaporto e l’identità del suo titolare.

Peraltro, per evitare qualsiasi forma di schedatura, i dati biometrici possono essere conservati soltanto all’interno del passaporto, il quale risulta rimanere nell’esclusivo possesso del suo titolare. In via definitiva, il regolamento non stabilisce nessun’altra forma né strumento per conservare le impronte e, dunque, la norma non può essere interpretato come idoneo a fornire, in quanto tale, il fondamento giuridico ad una eventuale centralizzazione dei dati raccolti in una unico database oppure all’impiego di questi ultimi a fini diversi da quello di impedire l’ingresso illegale di persone nel territorio Ue.

Un chiarimento importante, rileva Giovanni D'Agata, fondatore dello “Sportello dei Diritti”, che chiarisce come gli stati membri non possano utilizzare la raccolta delle impronte al fine di schedare i propri cittadini o per altri usi non stabiliti dalla normativa

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