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CON LA CONDANNA DI BERLUSCONI FINISCE LA SECONDA REPUBBLICA MA NON NASCE LA TERZA

Con la condanna di Silvio Berlusconi, passata in giudicato dopo la conferma della Cassazione, è definitivamente morta e sepolta la Seconda Repubblica, ma non è ancora nata – anzi – la Terza, non essendo per ora finito (politicamente) né Berlusconi né il berlusconismo. E in questo passaggio decisivo per le sorti dell’Italia, il governo Letta, purtroppo, è soggetto passivo, con tutta l’impotenza di fronte ai drammatici problemi del Paese e al cospetto delle possibili evoluzioni del quadro politico, che questo comporta.

La stagione politica nata nel 1994 con l’ormai famosa “discesa in campo” del Cavalier Berlusconi – e impropriamente chiamata Seconda Repubblica – così come si era aperta all’insegna di Mediaset (nata nel 1993 per alleggerire i debiti di Fininvest, quotando in Borsa le televisioni) e della magistratura (Tangentopoli), così si chiude due decenni dopo sempre per via del binomio Mediaset-magistratura. Allora Berlusconi scelse la strada della politica per evitare di finire schiacciato nella morsa, da un lato delle banche che volevano il rientro dei loro crediti, e dall’altro della procura di Milano, che faceva prefigurare ai suoi occhi di poter finire come Raul Gardini. Fece il pieno dei consensi, oltre che per la modestia della “gioiosa macchina da guerra” di Occhetto, per aver avuto l’abilità di coniugare sia il verbo populista caro all’Italietta dell’anti-politica, sia quello liberista del “meno Stato più mercato” e del “meno tasse per tutti” caro ai moderati anti-comunisti. Nel farlo non ebbe riguardo per quei partiti e quei politici della Prima Repubblica che pure gli avevano consentito di diventare un tycoon, tanto che i giornali e le televisioni che a lui facevano riferimento furono in prima fila nel sostenere l’opera di “pulizia-polizia” di Mani Pulite ed egli stesso non mancò di offrire un posto di ministro a Di Pietro.

Da allora l’Italia non ha avuto un sistema politico “normale”, avendo dato vita ad un bipolarismo anomalo, basato sulla contrapposizione “armata” tra berlusconismo e antiberlusconismo. Ciò, ovviamente, per “colpa” di Berlusconi, ma anche per responsabilità – almeno pari – di quel composito (politicamente) e sbrindellato (culturalmente) fronte che lo ha avversato. Il quale, non avendo saputo dimostrare di essere meglio di Berlusconi sul terreno per lui più debole, quello della capacità di governare, e quindi non avendolo potuto battere politicamente, ha finito per affidarsi esclusivamente – in modo improprio, e per molti versi autolesionista – all’intervento della magistratura. La quale, dopo vent’anni di accanimento – dato oggettivo, questo, al di là delle responsabilità penali specifiche del Cavaliere – ha ora finalmente raggiunto lo scopo. E lo ha raggiunto su un terreno scivoloso, quello dell’elusione fiscale (che in altri paesi viene considerata accettabile, e comunque comporta pene pecuniarie, non penali), per applicare la quale è stata costretta a ricorrere ad un’interpretazione “sostanzialista” del diritto, essendo Berlusconi persona fisica priva di rappresentanza giuridica in Mediaset. Non è un trattamento “speciale” riservato solo a Berlusconi, questo, perché la nostra cultura giuridica ha preso questa strada da anni e in molti altri casi, specie quando si tratta di personaggi famosi (ultimo esempio Dolce e Gabbana).

D’altra parte, che la giustizia fosse diventata giustizialista, facendo strame di ogni forma di garantismo, era chiaro fin dal 1992, quando invece il Cavaliere plaudiva. E che si fosse di fronte ad una enorme iniquità, tale da sovvertire lo stato di diritto e mettere in forse la stessa democrazia, era tema da concrete scelte riformiste di governo, non da campagne elettorali all’insegna del martirio. Invece, i vari governi Berlusconi non sono stati capaci di mettere in campo una seria e complessiva riforma della giustizia, ma solo di inseguire – in modo maldestro, e neppure utile alla sua causa personale – le specifiche vicende giudiziarie del premier. In vent’anni di azione politica, di cui dieci di governo, Berlusconi ha avuto innumerevoli occasioni per riformare la giustizia, ma non l’ha fatto per un combinato disposto di inettitudine, ignoranza, debolezza ed eccesso di furbizia. Anzi, ha passato anni a vituperare la magistratura, senza aver letto (o capito) la lezione di Machiavelli, secondo cui “il nemico o si blandisce o si uccide, ma non si ferisce, perché prima o poi si vendica”. Così è puntualmente successo, e ora ne paga il prezzo, dopo averlo fatto pagare all’intero Paese.

Per questo Berlusconi non è credibile quando minaccia – come ha fatto a caldo dopo la sentenza – di mettersi alla testa di una rinnovata battaglia politica di libertà. Ricreando Forza Italia da padrone (magari con la figlia) e usandola come ariete può solo imboccare la strada di una guerriglia populista, forse persino eversiva. Molto, forse tutto, dipenderà da quel po’ di Pdl che ha ancora senso delle istituzioni e sale in zucca, e dal Pd. I primi, i moderati del centro-destra, quelli che hanno una cultura politica e una storia a prescindere da Berlusconi, sono chiamati a decidere una volta di più se continuare a stare rintanati nella finora comoda, ma sempre più esile, cuccia elettorale del Grande Capo, o se provare a giocare da soli. Nel Pd, invece, i riformisti e i garantisti – che non sono necessariamente i “nuovi” contrapposti ai “vecchi” – devono dare dimostrazione che non si fanno condizionare dal solito “richiamo della foresta” di chi s’illude che esista una maggioranza a sinistra per il solo fatto che Berlusconi alle prossime elezioni non potrà essere candidato. Ce la faranno, gli uni e gli altri? Insieme sapranno salvaguardare le ragioni di una maggioranza che solo gli improvvidi hanno definito “strana”, essendo invece l’unica salvezza per evitare il crack dell’Italia? L’amore per questo Paese, e la paura di un caos politico che avvitato con la crisi economica, innescherebbe una fibrillazione sociale stile anni Settanta, ci fanno dire che ci crediamo. La ragione, ci fa essere più cauti. Il fatto è che in questo momento servirebbe un governo autorevole, non uno “indispensabile ma deludente” come questo (e come è stato quello Monti). Se fin dall’inizio fosse stato capace di prendere il toro per le corna, invece che cercare la mediazione preventiva, oggi Letta sarebbe difeso dall’opinione pubblica – e quindi non temerebbe di cadere, come invece teme – e sarebbe visto come polo di aggregazione politica anche per il “dopo”, come cantiere della Terza Repubblica, da pidiellini e piddini. Invece i primi sono attoniti, i secondi intenti ad accoltellarsi in vista di un congresso che rischia di rivelarsi inutile. L’unico punto fermo era e resta il Capo dello Stato. Già, ma fino a quando?

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