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DAL SENATORE ROBERTO LANFRANCO AL CARO COLLEGA MAURIZIO DE TILLA LO STRALCIO DELLA RELAZIONE DELL’ANM SULLA MEDIAZIONE

avv. Fabrizio Bruni

DAL SENATORE ROBERTO LANFRANCO AL CARO COLLEGA MAURIZIO DE TILLA LO STRALCIO DELLA RELAZIONE DELL'ANM SULLA MEDIAZIONE
8. Misure in materia di mediazione civile e commerciale (art. 84) Si premette che l’Associazione Nazionale Magistrati, in occasione dell’audizione davanti alla Commissione Giustizia del Senato, aveva espresso alcune critiche al D.Lgs. n. 28/2010, pur nella premessa della fondamentale importanza di una cultura della mediazione. Il punto maggiormente problematico era stato identificato nel ruolo del mediatore, pensato esclusivamente per fare emergere gli interessi sottostanti al conflitto al solo fine del raggiungimento dell’accordo e non per individuare suggerimenti e proposte in relazione alla propria valutazione delle ragioni delle parti.In sostanza, veniva criticato l’impianto normativo, che non faceva perno su un “mediatore” di qualità, tale da individuare i punti salienti del conflitto e quindi le adeguate soluzioni anche giuridiche. La critica era quella di avere concepito l’istituto esclusivamente come filtro ovvero come “regolatore” per l’accesso al giudice civile e non come generale strumento di risoluzione delle controversie civili, rimedio tipico di tutte le esperienze di matrice nordamericana, diffuse anche in ambito europeo e che riguardano tutto ciò che vi è di alternativo alla giustizia statuale. In particolare, veniva criticato il meccanismo della c.d. obbligatorietà, la quale non era prevista dalla legge delega e non era imposta dalla normativa comunitaria. Venendo alla normativa in esame, va rilevato che il legislatore si muove nel solco già tracciato dal decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, introducendo alcune modifiche.Non si notano particolari cambiamenti per quanto concerne il ruolo del mediatore,la cui individuazione viene rimessa agli organismi di mediazione, salvo prevedere che “gli avvocati sono di diritto mediatori”, così garantendo anche per la classe forense la possibilità di accedere al ruolo dei mediatori (art. 16, comma 4 bis). Tale norma sana solo in parte le critiche mosse alla qualificazione professionale del mediatore, in quanto non è previsto un serio meccanismo di reclutamento e formazione dei mediatori che non siano avvocati. Altro punto che merita di essere approfondito riguarda la c.d. “mediazione delegata”, cioè la mediazione introdotta per effetto del provvedimento del giudice, anche di appello, il quale dispone l’esperimento del procedimento di mediazione (la versione precedente prevedeva invece un invito alla mediazione) come condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Il giudice, in tale provvedimento, indica anche l’organismo di mediazione e provvede prima dell’udienza di precisazione delle conclusioni, ovvero, quando tale udienza non è prevista, prima della discussione della causa. La seria perplessità sulla norma in oggetto riguarda l’indicazione, da parte del giudice, dell’organismo di mediazione. In tal modo, il giudice viene distolto dal ruolo essenzialmente giurisdizionale che gli è proprio, per indicare l’organismo di mediazione, attingendo al panorama dei vari organismi disponibili (che si prevede sarà piuttosto affollato). Non sembra poi opportuna – trattandosi di mediazione obbligatoria – la previsione del pagamento di una indennità di mediazione per il caso di fallimento dell’esperimento, giacché la parte per un verso è costretta a fare ricorso al procedimento di mediazione e, per altro verso, verrebbe gravata di spese che assumono un sapore punitivo per il mancato raggiungimento dell’accordo. Nel contesto di cronicità dell’abnorme arretrato civile, è comprensibile come la mediazione sia concepita dal legislatore come strumento essenzialmente deflattivo e su questo punto, pur nella valenza e nella irrinunciabilità della petizione di principio (importanza della cultura della mediazione soprattutto volontaria), occorre considerare che il meccanismo dell’obbligatorietà, opportunamente circoscritto, si rivela per certi versi indispensabile. Ciò è testimoniato dal crollo delle mediazioni a seguito della pronuncia della Corte costituzionale e tale dato conferma come poco diffusa e poco praticata sia la cultura della mediazione in Italia. Il tema, in realtà, riveste natura spiccatamente politica, anche se va osservato che la normativa dell’Unione Europea, e nello specifico la direttiva 2008/52/CE, non contiene previsioni in merito alla obbligatorietà ed è volta essenzialmente a garantire un migliore accesso alla giustizia, invitando gli Stati membri a istituire procedure extragiudiziali alternative, formate sulle specifiche esigenze delle parti, per consentire una risoluzione conveniente e rapida delle controversie civili e commerciali. In conclusione, sulla disciplina si può esprimere un parere nel complesso favorevole, osservando come il legislatore abbia provveduto a circoscrivere l’ambito di obbligatorietà e abbia previsto meccanismi (l’inclusione degli avvocati nell’ambito dei mediatori, l’intervento dei legali nella fase di omologa del verbale di accordo) intesi ad assicurare la qualità dell’istituto. Tuttavia, pur nella necessità di utili strumenti deflattivi, la mediazione non può essere pensata esclusivamente a tale scopo; la costituzione di una efficace alternativa alla giustizia civile richiede mediatori qualificati ed esperti, un serio controllo sulla loro attività e l’inserimento di regole di deontologia professionale; né va trascurato il fatto che la previsione di obbligatorietà non basta ad assicurare l’efficace esperimento della mediazione, che potrebbe risolversi in un inutile appesantimento della procedura, ove non sia accompagnata da una reale cultura della mediazione, assistita da serie misure incentivanti. A tale riguardo va ricordato il pregevole progetto Conso (c.d. Commissione Fazzalari), dei primi anni ’90, molto ben articolato e strutturato su modelli di mediazione volontaria, con incentivi premiali e fiscali. 5. Misure processuali (artt. 75 – 81) Parere parimenti favorevole si esprime in ordine alla disposizione dedicata alla divisione a domanda congiunta demandata al notaio (art. 76) e, in linea di massima, alla conciliazione giudiziale (art. 77), con le precisazioni che seguono. Tale ultima disposizione, da mettere in correlazione con le riforme in tema di mediazione, introduce un vero e proprio potere conciliativo e transattivo obbligatorio (“deve”) da parte del giudice. Il rifiuto delle parti in merito a tale proposta – senza giustificato motivo – costituisce poi comportamento valutabile dal medesimo giudice ai fini del giudizio (sarebbe preferibile chiarire: ai fini della decisione sulle spese). La norma si innesta nel solco dei poteri conciliativi di derivazione pretorile, già introdotta sotto forma di conciliazione obbligatoria nell’art. 183 c.p.c. con riferimento alla prima udienza di trattazione e soppressa nel 2005. Tuttavia la disposizione, pur nel condivisibile intento di armonizzare il rito ordinario di cognizione con il rito del lavoro, nel quale già esiste analoga norma, esige la formulazione di una proposta conciliativa o transattiva vera e propria, nella fase iniziale del giudizio, in tutte le controversie (anche nei giudizi civili di notevole spessore: solo a titolo esemplificativo si pensi alle cause societarie, alle azioni revocatorie, ai giudizi di responsabilità contabile, e persino in quelli di puro diritto) e mal si concilia con l’esigenza (correlata a ragioni di convenienza) volta ad evitare che il giudice anticipi il proprio giudizio specie in procedimenti di una certa complessità e consistenza. Altro inconveniente risiede nella necessità di pervenire, sin dalla prima udienza, ad uno studio accurato e preciso del fascicolo così da formulare obbligatoriamente una proposta transattiva o conciliativa. La norma potrebbe quindi essere corretta con l’inciso ”ove possibile, avuto riguardo alla natura del giudizio, al valore della controversia ed alla esistenza di questioni di facile e pronta soluzione in diritto”. Si tratterebbe di una clausola di salvaguardia, opportuna anche in considerazione della varietà e del diverso grado di complessità della cognizione civile. Va però anche detto che già nella relazione illustrativa il legislatore ha affrontato il problema relativo alla obbligatorietà della transazione/conciliazione ed alla mancata previsione di sanzioni nel caso di inerzia del giudice. Ne consegue che la norma, pur ipotizzando un meccanismo di obbligatorietà, potrebbe comunque essere intesa nel senso di una obbligatorietà pur sempre rimessa alla valutazione discrezionale del giudice, il quale può anche prevedere che non sussistano i presupposti per la transazione/conciliazione (cfr. Cassazione, sez. III. Sentenza n. 1099 del 9.2.1985 a proposito del tentativo obbligatorio di conciliazione) – FONTE: SITO ANAI

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