E’ passato in sordina ma è un grande film, scritto (con Angelo Pasquino) da Roberto Andò, con partitura dal suo romanzo, premio Campiello, “Il trono vuoto”, più efficace di tanti saggi o conferenze nel ritrarre il vuoto desolante e lo sfacelo della politica italiana.
“Viva la libertà”, vive della grande interpretazione di Tony Servillo (che fa ancora una volta centro, in pieno bifrontismo), ma anche di un racconto fluido in cui Valerio Mastandrea, Valeria Bruni Tedeschi, Michela Cescon, Anna Bonaiuto, Judith Davis, Eric Trung Nguyen, Andrea Renzi, Gianrico Tedeschi, Massimo De Francovich, Renato Scarpa, Lucia Mascino e Giulia Andò sono tutti eccellenti.
Uscito a febbraio, il film ricostruisce, col piglio della commedia, la finzione e la mistificazione di una politica corrotta e corruttrice, che fa leggi solo contro la magistratura e mai a favore della legalità e della trasparenza, con i migliori fra i politici che, interpretando bene Macchiavelli, sono astuti attori capaci di attrarre mistificando.
Il nostro particolare momento storico e sociale, raccontato con poetica melanconia da Paolo Sorrentino che però si occupa di intelletuali, vi è descritto con una visione altrettanto sognante, quasi teatrale, a metà strada tra la commedia degli inganni di Shakespeare e il relativismo pirandelliano, reso più evidente dal linguaggio del cinema, perfettamente impiegato e dispiegato.
Ma più che da Sorrentino (innamorato della dimensione singola e privata), il film di Andò prende le mosse dal memorabile j'accuse morettiano di oltre dieci anni fa, quando, riferendosi a Rutelli e Fassino disse: “Con questi dirigenti non vinceremo mai”, per mettere a fuoco (starei per dire renzianamente se non fossi convinto che Andò è con Civati e non col sindaco di Firenze), le lacune della sinistra tradizionale riuscendo con arguzia a fotografare la distanza della politica dal sentire comune e l'incapacità dell'opposizione, prigioniera di troppi bizantinismi, a scegliere una linea di condotta chiara.
Una situazione che rende auspicabile la fuga del leader paralizzato e l’avvento dell'alieno, il neofita digiuno delle alchimie del Palazzo che, precipitato nel teatrino, ne sconvolge le regole riconquistando la fiducia degli elettori.
Film profetico rispetto al Grillismo ed alla dissoluzione progressiva del Pd, un elogio alla follia in politica, dal registro surreale ma in cui si ride molto, grazie all'ironia del leader stralunato e all'aria malinconica del suo segretario.
Il film è bello, in ogni sua parte, dall’incipit con ouverture di Verdi da La Forza del Destino, al finale aperto e da inerpretare, come si fa quando il cinema è vero e non a tesi.Bello perché non saccente, non invasivo, non militante né intellettualmente dittatoriale.
Un film controcorrente non solo perché fotografa il concetto di politica come dovrebbe essere in tutta la sua fondamentale importanza, ma anche perché (e questo ne spiega la rapida eclisse), finalmente, qualcuno si occupa di mettere in scena il mondo paludoso della sinistra italiana, dove si possono scorgere senza troppi patemi e indovinelli, i personaggi nostrani di Pci, Ds, Pd e riflettere senza esagerazioni sulla drammatica nostra situazione.
Palermitano, classe 1959, con Sciascia come mentore ed esordi nella letteratura, formatosi al cinema come assistente di Rosi, ma anche di Giacomo Battiato, Federico Fellini, Michael Cimino e Francis Ford Coppola, Roberto Andò esordisce alla regia in teatro, nel 1986, con uno spettacolo tratto da un testo inedito affidatogli da Italo Calvino, La foresta-radice- labirinto: una favola filosofica, messa in scena con i bozzetti di Renato Guttuso e la musica di Francesco Pennisi, per poi firmare il documentario (1994), dedicato a Robert Wilson, Memory-Loss (1994), che, come il suo secondo, Per Webern – Vivere è difendere una forma (1996), è applaudito alla Mostra del Cinema di Venezia.
Il suo primo lungometraggio è del 1995, anc’esso peresentato a Venezia, intitolato Diario senza date (divenuto nel 2008 diario-saggio dedicato a Palermo), film in cui compaiono in parti fugaci e significative gli scrittori Leonardo Sciascia, Vincenzo Consolo, Michele Perriera e Gianni Riotta e i magistrati Roberto Scarpinato, Erminio Amelio e Ignazio De Francisci, che piace a Giuseppe Tornatore, che gli produce Il manoscritto del Principe (1999), dedicato agli ultimi anni della vita di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, con Michel Bouquet, Jeanne Moreau, Paolo Briguglia, Giorgio Lupano e Leopoldo Trieste.
Ama tanto il cinema che la scrittura ed il teatro Andò e riesce bene in ognuna di queste forme, con film memorabili come Viaggio segreto, tratto dal romanzo Ricostruzioni di Josephine Hart, applaudito al Festival di Roma nel 2006, romanzi come, appunto, “Il trono vuoto” (ma anche quello scritto con Ovaida: Skylok. Prove di soppravivenza-per ebrei i non- dove un enigmatico finanziere, del cui patrimonio non si conosce l'origine, e un regista ebreo da anni inattivo si incontrano in un luogo imprecisato, a metà tra un hangar e un mattatoio, per discutere il progetto di mettere in scena Il mercante dì Venezia)ed operazioni teatrali: sia quelle in sodalizio con Moni Ovadia che quelle dedicate all’opera di Harold Pinter, con il quale stringe un profondo legame d’amicizia e di affinità.
Ed è proprio pinteriano l’aggettivo più proprio per definire Andò anche nel cinema, con una estremizzazione di Pirandello, in cui non ci sono personaggi in cerca d’autore (come invece accade per Sorrentino), ma attori in cerca di personaggi e vicende scritte in modo che l’attore affascini e conquisti il pubblico col metodo della menzogna, che si impone sui contenuti, con tutti gli attori che divengono piccoli epigoni di Riccardo III che sulla stessa scena era lover, villain, king e clown: uccideva ma seduceva per la capacità di cambiare personaggio (e carattere). Come i politici cui siamo abituati che ci ricordano, co loro fraudolento successo, come nel settecento tgli attori specializzati nelle parti serie e commoventi furono spazzati via dal successo degli attori provenienti dai ruoli bassi della commedia (i buffoni, le maschere, le servette), capaci di passare con disinvoltura da un ruolo all’altro, secondo un trasformismo che è sempre garanzia di successo.
Innocenti, colpevoli, vittime, carnefici sono ruoli che si confondono in una memoria manipolata dal linguaggio e viene in mente Goldono ma anche Testori e Diego Fabbri oltre, naturalmente, a Pirandello e Pinter.
Guardando (in ritardo colpevole) il film di Roberto Andò, mi viene in mente (oltre a Moretti e a Sorrentino e per certi versi a Tornatore), anche José Luis Sáenz de Heredia, regista spagnolo ingiustamente dimenticato, che nel lontano 1973 girò un film tratto dal lavoro teatrale di Fabbri Proceso a Gesù, uscito in Italia col titolo Tu lo condanneresti?, con lo spostamento del processo non sul Nazzareno ma sulla società che si dice cristiana e che ha generatio un mondo in cui alla gente semplice non rimane più nulla.
Lo scorso 10 aprile mi trovavo per caso a Cagliari e con sopresa seppi di una manifestazione in città: “Diario di un regista- Il cinema di Roberto Andò”, ideata e curata dall’associazione culturale L’Alambicco, in collaborazione con la Società Umanitaria-Cineteca Sarda e La Macchina cinema.
Spendendo spudoratamente la mia presidenza all’Istituto Cinematografico Lanterna Magica de L’Aquila, sono riuscito ad avere un invito e a godermi una lunga intervista con l’Autore, laureato in filosofia, colto e raffinato, capace di uno sguardo insieme non distratto e poetico sulla realtà che ci circonda.
Dopo la conferenza (con presentazione del libro “Il trono vuoto”), me lo hanno presentato è forte è stata la sua meaviglia nello scoprire che avevo visto decibne di volte e conoscevo scena per scena “Sotto falso nome”, suo noir sul tema della scrittura e della creazione, interpretato da Daniel Auteuil, Anna Mouglalise Greta Scacchi, una coproduzione italo-franco-svizzera, e presentato nel 2004 come film di chiusura a Cannes alla Semaine de la Critique, ma senza quasi circolazione da noi.
E l’ho visto attento, nonostante la stanchezza dell’ora tarda e la fatica del dover rispondere ai molti che l’assiedavano, quanto gli ho parlato (ma, lo giuro, brevemente), del complesso e controverso rapporrto fra scrittura e sguardo, del cinema di Truffaut e del saggio di Giorgio Tinazzi, dove si descrive in che modo in sguardo e scrittura vivono momenti di alternata convergenza e divergenza, in quello che potremmo definire a tutti gli effetti (secondo le teorie gaudreaultiane), uno “sguardo intermedio”, fra accettazione/attrazione e repulsione/avversione , tra il timore di perdere l’aura elitaria che ha da sempre contraddistinto il mondo letterario (come rimproverava Moravia a Pasolini) e la possibilità di delegare al medium nascente, allo stesso tempo potenziandolo, il compito di districare il complicato rapporto tra illusione e realtà, nel gioco di un’apparenza celata dietro la maschera della verosimiglianza.
Lezione che lui ha adottato perfettamente, facendone la sua poetica.