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Crescere, elaborando nel rimpianto

Leo è un sedicenne come tanti: ama le chiacchiere con gli amici, il calcetto, le scorribande in motorino e vive in perfetta simbiosi con il suo iPod.
Le ore passate a scuola sono uno strazio, i professori “una specie protetta che speri si estingua definitivamente”.
Così, quando arriva un nuovo supplente di storia e filosofia, lui si prepara ad accoglierlo con cinismo e palline inzuppate di saliva. Ma questo giovane insegnante è diverso: una luce gli brilla negli occhi quando spiega, quando sprona gli studenti a vivere intensamente, a cercare il proprio sogno. Leo sente in sé la forza di un leone, ma c'è un nemico che lo atterrisce: il bianco. Il bianco è l'assenza, tutto ciò che nella sua vita riguarda la privazione e la perdita è bianco.
Il rosso invece è il colore dell'amore, della passione, del sangue; rosso è il colore dei capelli di Beatrice.
Perché un sogno Leo ce l'ha e si chiama Beatrice, anche se lei ancora non lo sa. Leo ha anche una realtà, più vicina, e, come tutte le presenze vicine, più difficile da vedere: Silvia è la sua realtà affidabile e serena. Quando scopre che Beatrice è ammalata e che la malattia ha a che fare con quel bianco che tanto lo spaventa, Leo dovrà scavare a fondo dentro di sé, sanguinare e rinascere, per capire che i sogni non possono morire e trovare il coraggio di credere in qualcosa di più grande.
Tratto dal romanzo d’esordio di Alessandro D’Avenia, uno dei pochi long seller nostrani, uscito per Mondadori nel 2010, accolto con grande entusiasmo e che continua a essere scoperto ancora oggi da nuovi e appassionati lettori; diretto da Giacomo Campiotti, “Bianca come la neve e rossa come il sangue” è un’opera a vivace nei modi e nella narrazione, semplice come sanno essere le storie che parlano di vita vera, ma anche tortuosa nel trovare le risposte alle tante domande del suo protagonista.
Un film che nasce dall'esigenza di fare a botte con la morte e vedere se alla fine della battaglia qualcosa si riesce a salvare, dove Campiotti riprende idealmente il cammino autoriale iniziato quasi venticinque anni fa con “La corsa di primavera”, proseguito con “Come due coccodrilli” e continuato con “Mai + come prima”, dopo la pausa di riflessione coincisa con la sua esperienza internazionale col kolossal “Il tempo dell'amore” e torna a parlare con schiettezza ed empatia dei giovani, dell'adolescenza e di tutte le sue sfaccettature, di come la morte faccia parte della vita a qualsiasi età, anche in un momento in cui con positività ed entusiasmo ci si affaccia al mondo con tante speranze.
Un film in cui, all'elaborazione del lutto per la perdita di una persona cara, Campiotti aggiunge l'amarezza per la fine di un periodo dell'esistenza in cui non si è considerati né bambini né adulti, in cui si può pensare solo al divertimento e all'egocentrica, affannosa e incosciente affermazione di se stessi.
Bravi Filippo Scicchitano, Aurora Ruffino, Gaia Weiss e Luca Argentero, ma anche Flavio Insinna e Cecilia Dazzi nel ruolo dei genitori.
Scicchitano, 19 anni, romano, rivelato da “Scialla!”, si dimostra dotato di autentico, particolarissimo talento e sta ora girando, nel ruolo di un ragazzo gay, “Il mondo fino in fondo”, film di Alessandro Lunardelli ambientato in Patagonia.
Dicevamo del film più discusso e mono apprezzato di Campiotti: “Il tempo della’amore”, realizzato nel 2000 ed uscito assieme ad un altro controverso lavoro: “Fine di una storia” di Neil Jordan, come questo love-story sullo sfondo della Seconda Guerra Mondiale, un film incompreso ed invece interessante, a partire dalla vocazione davvero europea e per niente “sparagnina”, anzi a suo modo sontuosamente spettacolare, del progetto che, grazie anche al lavoro dello sceneggiatore Alexander Abadachian, che non teme di mettere in scena il sentimento amoroso e anzi costruisce un racconto con tre storie che confluiscono l'una nell'altra, senza soluzione di continuità, quasi sommerse da una gigantesca onda: sognata, disegnata, continuamente evocata, segnalando il tentativo, in buona parte riuscit,o di fare un cinema caldo e impetuoso, ma non corrivo, capace di parlare anche al pubblico che vede con sospetto il cinema italiano. Memorabile l'incipit: “L'amore è duro come la morte”, sussurra l'adolescente Naty, sospinta da un sentimento rabbioso che la spinge per strada; e la sua voce si mischia a quella inglese di Martha e a quella francese di Claire, a comporre un'unica riflessione sull'amore (che suonerebbe meno retorica se non fosse “bombardata” dal ridondante tema musicale fischiato da Lucio Dalla).
Il modo cinematografico di Campiotti ricorda quello di Luciano Emmer, sia quello de “La ragazza in vetrina”, che i suoi prodotti su l’arte, in cui esplora con poesia i mondi figurativi di Giotto, Bosch, Carpaccio, Leonardo, Michelangelo, Picasso, ma lo fa parlando sempre della’uomo e dei suoi sentimenti.
E lo ricorda anche nel modo con cui dirige gli attori e, ancora, nell'utilizzo particolarmente innovativo di musica e sonoro.
Ma anche, per le scelte visive, una particolare freschezza e uno sguardo lucido sulla società, i sentimenti e le aspirazioni degli uomini, quello di Antonio Pietrangeli e ancora, di Valerio Zurlini, come lui autore di forte vocazione letteraria e capace di esprimere come pochi, la complessità dei paesaggi interiori.
Mi piacerebbe, come Istituto Cinematografico Lanterna Magica, realizzare, a L’Aquila, una rassegna, chiamata proprio “paesaggi interiori”, dedicata ad opere di questi maestri di ieri e da chiudere con la proiezione di un paio di film di Campiotti, per scrutare, nelle variazioni cronologiche, le modalità narrative ed espressive di un cinema che davvero sia in grado di raccontarci.
E partirei, in questo progetto ideale, con “La prima notte di quiete”, meritoriamente restaurato dalla Philip Morris, in collaborazione con Titanus, Fondazione Scuola Nazionale di Cinema e Cineteca Nazionale – di Valerio Zurlini, film che vidi appena quattordicenne, riportandone una impressione forte e duratura, come di ciò che ti s'imprime nella memoria per scavarsi una nicchia sempiterna.
Un film letterario e molto autobiografico, in cui, come in molta parte di “Bianca come la neve e rossa come il sangue”, la passione febbrile, ansiogena, sfinente si svolge nel segno appena celato del cupio dissolvi, rappresentato dalla crescita e dalla perdita della innocenza, dove il cercarsi spasmodico dei corpi, l'irruzione della verità attraverso la furia malevola di chi non tollera illusioni di purezza, distrugge il sogno di purezza perduta, fatto di bianco e rosso e che vira al rosa, anche visivamente, nel finale.

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