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Poveri sterminati

I coniugi suicidi non avevano neanche i soldi per pagare l’affitto. Così, a 62 ani lui e 68 lei, si sono tolti la vita, perché era ormai solo amarezze, senza nessuna prospettiva.
La coppia di Civitanova Marche andava avanti con la sola pensione di lei, mentre il marito, che pure aveva lavorato come impiegato in una ditta calzaturiera, non aveva diritto ad alcun trattamento.
Li hanno trovati stamani i vicini di casa, impiccati uno accanto al’altro, sotto un cielo livido e tristissimo, con nere nuvole gonfie di gelo e di rimproveri duri, come quelle dei quadri di Bruegel il Vecchio.
Ieri sulla Gazzetta Jonica una donna ha scritto al direttore dicendo che la sua famiglia non ha più nulla per andare avanti, che a dicembre scorso il marito è stato licenziato e mandato a casa senza stipendio e lei, che faceva da badante ad una anziana signora, non ha più lavoro, perché la sua assistita è morta.
A Milano, pochi giorni fa, un giovane ha ucciso la madre e poi tentato il suicidio, perché erano stanchi della propria indigenza, disperati per l'ultimo rifiuto di una banca che aveva negato loro un prestito.
A Trapani rischia di chiudere la Casa di Riposo “Tommaso Lucentini, per debiti accumulati e procedure esecutive che bloccano gli stipendi: una situazione difficile confermata anche dallo stesso presidente del Consiglio di amministrazione Tommaso Pisciotta e porta i tredici gli anziani attualmente ricoverati a non sapere dove poter ricevere alloggio, nutrimento e cure.
I sociologi le hanno ribattezzate “nuove povertà”, ma per farla semplice si potrebbero anche chiamare “le persone che non arrivano alla fine del mese” queste sono 8,1 milioni, ossia l'11,1% delle famiglie. Di questi, 3 milioni e 415 mila (5,7% dell’intera popolazione) vivono in condizioni di “povertà assoluta”, tale da rendere possibili gesti estremi e disperati.
C'era un tempo in cui il termine “povertà” era quasi del tutto associata ai paesi meno industrializzati, meno sviluppati, più “emarginati” dal moderno sistema economico di sviluppo e si tendeva, quindi, ad allontanare il problema dai paesi “a capitalismo maturo”, che sembravano essere ricchi. Ma negli ultimi anni – con la crisi che avanza – la realtà è cambiata, anche se qualcuno ancora non l'accetta.
Parliamo di una povertà stagnante, rimasta più o meno stabile tra il 2010 e il 2011, ma solo perché sono peggiorate le condizioni delle famiglie in cui vi sono operai, o non vi sono redditi da lavoro, e migliorate quelle delle famiglie di dirigenti o impiegati.
n generale, l’incidenza di povertà assoluta cresce tra le famiglie con a capo una persona con profili professionali e/o titoli di studio bassi, tra cui nuclei con licenza elementare (dall’8,3% al 9,4%) o di scuola media inferiore (dal 5,1% al 6,2%). Mentre migliora – si fa per dire – la condizione delle famiglie di dipendenti o dirigenti: nel 2010 era relativamente povero il 5,3% e assolutamente povero l’1,4%, mentre nel 2011 i valori si fermano al 4,4% e all’1,3%.
Non basta: al Sud è povera quasi una famiglia su quattro (23,3%), infatti dall'indagine Istat risulta che sono la Sicilia e la Calabria le regioni più “senza soldi”, con un’incidenza di povertà rispettivamente pari al 27,3% e al 26,2%,, mentre i valori più bassi si registrano invece al nord, ossia nella provincia di Trento (3,4%), in Lombardia (4,2%), in Valle d’Aosta e Veneto (entrambi al 4,3%).
Tutti i poveri devono morire (Castelvecchi editore) è il titolo di un recente libro del del giovane scrittore pescarese Giovanni Di Iacovo, vincitore del premio letterario De Lollis con il suo libro d’esordio, Sushi Bar Sarajevo, che utilizzando con maestria i diversi generi, muovendosi con sapienza e un tocco di crudeltà nella narrazione dei fatti e addentrandosi con gran disinvoltura in una materia così delicata come gli omicidi seriali, ci racconta che l’unico modo di eliminare la povertà sembra essere oggi, la cinica e totale eliminazione dei poveri.
Nel suo libro, i delitti sono compiuti da un gruppo di spocchiosi aristocratici mossi dalla profonda convinzione che la povertà sia un fastidioso male da eliminare con qualsiasi mezzo. Essi sono riuniti nel gruppo denominato “Cenacolo degli Assassini”, nato nella notte dei tempi, con legami internazionali e in tutti i livelli della struttura sociale e con una regola fondamentale, creata dopo varie proposte e tentativi, per giustificare l’omicidio: uccidere solo chi possieda un reddito inferiore al proprio. Tutto è concesso agli assassini, purché si rispetti questa regola, tanto che si può arrivare ad ammazzare gli stessi membri del gruppo se caduti in disgrazia finanziaria.
Oggi, dopo i suicidi seriali legati al fallimento e alla povertà, dopo al’atroce morte per fame e disperazione accanto alle nostre porte, sorge il ragionevole sospetto che i concetti di società e la pratica di vita, nelle democrazie più avanzate, finiscano col dare sostegno ad un modello categorico di sviluppo messo, esso stesso, in elenco in un'inedita e più ampia classe di prodotti di consumo; un modello che, per chi ne sta anche involontariamente fuori, non ha che una soluzione: la morte.
C’è chi odia i poveri perché piangono sempre, perché hanno sempre qualcosa da chiedere e perché, quando alzano la cresta, rivendicano un sacco di diritti: vogliono un lavoro, un’abitazione, garanzia di salute, insomma pretendono di avere una dignità.
Chi odia i poveri li detesta quando parlano, perché oserebbero affrontare temi di cui, a loro dire, non sono degni: giustizia, uguaglianza, previdenza e libertà.
Chi odia i poveri li sterminerebbe, ma oggi ha capito che può anche non farlo e limitarsi ad ignorarli, perché tanto si sterminano da soli.
Lordati come siamo dal limo delle questioni immorali, la lettura di un romanzo come “Il delitto dei giusti” di André Chamson, edito nel 2008n (al’inizio della nuova, grande crisi) dalla Marcos y Marcos, risulta corroborante per lo spirito grazie alla sobrietà e alla puntualità con le quali stimola a riflettere su morale, etica pubblica e privata, doveri, verità, virtù, onore…
Insomma, materiale spinoso che scivola sul filo di una trama potente, ma dipanata con levità e minimalismo, senza traccia di retorica, di moralismo, né tantomeno di volgarità: tutti elementi che, al contrario, una quotidiana lobotomia per via mediatica ha reso imprescindibili dalla nostra vita.
Il delitto dei giusti è stato scritto nel 1928, e il suo autore, André Chamson (membro dell’Académie française, coevo – e in taluni casi amico – di Gide, Camus, Sartre e Malraux), è pressoché sconosciuto in Italia.
Ma sarà il caso di conoscerlo per guardare in faccia il dramma nero che ci circonda, che ci fa perdenti e peggiori, indecisi fra rettitudine e perdizione, paradisi e inferni, persi nell’afrore dolciastro e nauseante di un carcame sul quale banchettano sciami di mosche, separati solo dalla linea intangibile della morale.
“Il mio Dio è Buio, come un tessuto di mille radici” ha scritto Rilke, ma occorrerà rinnegarlo del dio orfico e spietato, ascoltando il lamento di tanti consimili che, sparuti ed indigenti, ci passano affianco.
Come ha ricordato Rita cedrini nel commento delle opere di Vincenzo Muratore (complessivamente e significativamente intitolate “Deus Absconditus”): “il sacro è tra noi, dentro di noi, fuori di noi, sopra di noi, nella recita quotidiana di dolore e amore, di sofferenza e gioia. In altre parole nel grande mistero della vita che consegna attraverso l'arte lo snodarsi di tappe, dove la trinità (Dio) si disvela perché l'umanità possa cogliere delle diverse entità il sublime nel dono di se stesso, attraverso la creazione prima, la parola poi, e infine il sacrificio supremo che regala la gloria divina. Dio nascosto si rende palese, eppure il buio del cuore acceca gli uomini che però lo cercano, lo interrogano quando la passione divina si fa umana nella via crucis della crudeltà, del disprezzo della dignità della vita.”

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