Se vogliamo continuare a ritenere Milano la capitale morale d’Italia, il suo sindaco non potrebbe che essere Enzo Jannacci. L’integrità della persona, capace di travolgenti e stralunate incursioni in tutti i campi della performance, è esattamente complementare alla poliedricità felicemente duttile dell’artista: Jannacci sapeva benissimo mettersi al servizio del tempo, affrescandolo, irridendolo e comunque e sempre riuscendo straordinariamente a raccontarlo, anche utilizzando un campionario vastissimo di simbologie ironiche, istrioniche e sardoniche.
Una premessa, che al grande cantautore farebbe piacere: Milano, tra la fine degli anni Cinquanta e per gran parte dei Sessanta, è stata laboratorio di stili, mescolanza di culture, riappropriazione permanente di canoni tradizionali in forme inedite e, viceversa, di elaborazioni anche avanguardistiche riconsegnate alla tradizionale cassetta degli attrezzi dello spettacolo (la canzone, il brano recitato, la gag).
In un contesto così fertile, Jannacci già spiccava: lungimirante nel lavoro sui testi, con uso paziente e sapiente del dialetto, mai piegato alla metrica mai sbandierato per calcolo, pronto a misurarsi da amico e sodale con una generazione di artisti che aveva trovato nell’intrattenimento la valvola di sfogo per rappresentare una gran quantità di cambiamenti sociali, a volte subiti, alle altre cavalcati, ma mai davvero condivisi (e, spesso, compresi) dalla povera gente.
Jannacci sapeva studiare la realtà di fabbrica, le storie umide e basse dei Navigli, le citazioni letterarie tanto d’Oltralpe quanto d’Oltreoceano.
E oltre ai testi sarebbe molto bello soffermarsi sul gusto musicale e sulla capacità teatrale: musicalità varie, mai atone, leste ad esplorare le ballate (senza spremere la carta strappalacrime tanto spesso brava ad usurare il pianoforte suonato “all’italiana”), ma anche lo swing, il free jazz, il rock’n’roll -quello autentico, che viene addirittura un’oncia di tempo prima della duarchia Beatles-Rolling Stones.
Quanto alla naturale inclinazione del “far scena”, cioè del trasformare in scena la quotidianità, essa si sostanziava in una capacità recitativa davvero poco “canonizzata”, ma assai fresca, sempre pronta alla collaborazione e, se del caso, ai semi positivi della contaminazione tra esperienze artistiche diverse.
Felice propensione a catturare i mutamenti, a saperne immediatamente intuire le distorsioni, a descrivere sempre scenari non convenzionali né omologanti, è dote che non si smarrisce, quando si cambia il registro: e, allora, ecco pure un Enzo Jannacci occasionale autore di colonne sonore, raffinato e sagace nelle scelte stilistiche, e calato esattamente in quel filone cinematografico che dalla metà dei Settanta alla fine degli Ottanta si è barcamenato, da un lato, “contro” la commedia scollacciata -dove i pur veicolati contenuti di costume finivano molto, molto, in secondo piano- e, dall’altro, contro il reflusso intellettualistico e solipsistico del cinema “d’autore”.
In ultimo, ma non per ultimo: Enzo Jannacci mai contrassegnato da bulimia mass-mediatica. E, come si è visto, ne avrebbe avuto davvero assai più titolo dei numerosi figli illegittimi di quello stile senza tempo, ma non misteriosamente sempre al passo coi tempi.
Chissà come avrebbe visto l’Italia del 2015, se la malattia non lo avesse consumato: forse la avrebbe vista assai meglio (e prima) di tutti noi.
Domenico Bilotti