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Newsletter TerzaRepub​blica n.4 del 26 gennaio 2013

ALLA FINE BERSANI-MONTI
SARÀ UN’ALLEANZA OBBLIGATA
MA RISCHIA (FATTA DOPO LE ELEZIONI)
DI ESSERE PASTICCIATA E BREVE

Se lo dice George Soros, c’è da credergli: dopo le elezioni ci sarà un governo Monti-Bersani. Perché, come peraltro dicono un po’ tutti i sondaggi, il centro-sinistra vincerà alla Camera ma non al Senato e Bersani, cui mancheranno intorno ai 15 voti, avrà bisogno del sostegno parlamentare dei centristi. Ma il finanziere americano – non nuovo ad incursioni nelle vicende politiche italiane – va oltre, e sostiene che quel duo “sarà il miglior risultato che si potrà sperare per l’Italia”. È davvero così? Per molti versi sì, per altri no. Vediamo tutti i pro e i contro dello scenario che effettivamente uscirà con più probabilità dalle urne.

Il primo punto a favore è che così si darà un governo al Paese, evitando il ripetersi dell’esperienza greca di tornare al voto dopo un mese. Nonostante il calo degli spread – salutare, sia chiaro – l’Italia non è affatto uscita dalla crisi, che peraltro preesisteva ben prima di quella finanziaria, mondiale ed europea, e che dal 2008 in poi si solo aggravata. Dunque immaginare una lunga fase di travaglio politico perché dalle urne non esce nessun vincitore, oppure ne esce uno con uno-due voti in più al Senato – situazione aggravata dal fatto che la legge elettorale, per il tramite del premio, trasforma una posizione minoritaria nel paese in una maggioranza politica che rischia poi di non reggere all’urto delle decisioni da prendere – sarebbe deleterio. Nessuno si assumerebbe il rischio di riportarci sul ciglio del baratro, e si spiega così la disponibilità di Bersani di aprire al centro anche se avesse la maggioranza. Il secondo punto a favore è che Bersani, Monti e Casini sono fatti per intendersi, mentre l’accordo allargato al Pdl – che pure Monti ha evocato, ma per ragioni tattiche – avrebbe il problema dell’ingombrante presenza di Berlusconi, che Bersani non potrebbe mai far digerire al suo partito e ai suoi alleati. Infine, avendo il Pd già commesso l’errore di allearsi con Vendola, sarebbe bene che evitasse di farne un altro moltiplicato enne trovando l’accordo post-elettorale con Ingroia (ammesso e non concesso che abbia qualche senatore).

Non meno numerosi e pesanti sono però i “contro”. Intanto ci sono alcuni ostacoli: siamo sicuri che dopo il voto Vendola accetti – specie se il centro-sinistra avesse la maggioranza, seppure risicata, anche al Senato – che Bersani apra al centro? E siamo sicuri che il centro riesca a costituire un solo gruppo parlamentare alla Camera (dove si presentano tre liste: Monti, Udc e Fli) e dunque stare unito nella fase di negoziazione con Bersani? La sottile ma evidente dialettica in corso tra Casini e Monti, che Verderami sul Corriere ha raccontato nei dettagli, ci segnala che la domanda non peregrina. Infine, il problema dei problemi: la convivenza tra Bersani e Monti. Chi farà il presidente del Consiglio? Chi ha preso più voti (ma gliene mancano per avere la maggioranza anche al Senato) o chi ci mette quelli che aggiungono la Camera alta a quella bassa? E l’altro che farà? Bersani il vicepresidente (con quali deleghe?) e Monti il super-ministro dell’Economia? E se anche fosse, quanto durerebbe un così forzato matrimonio?

Ma se anche tutti questi ostacoli fossero magicamente superati, rimarrebbe da conciliare la linea del governo tra chi è debitore (psicologicamente prima ancora che praticamente) alla Cgil e chi invece propone scelte, per esempio sul mercato del lavoro, che la Camusso definisce “reazionarie”? Stefano Folli sul Sole segnala, giustamente, che più che Vendola, potrebbe proprio essere il vertice della Cgil a segnare un solco difficilmente colmabile tra Bersani e Monti. E l’Italia ha bisogno di tutto meno che di compromessi al ribasso sulle riforme strutturali da fare.

Tuttavia, al di là degli argomenti che militano a favore o contro l’ipotesi del duo Bersani-Monti (Soros ha rovesciato l’ordine dei due nomi, ma crediamo che i numeri delle urne diranno che la sequenza giusta è questa), ci sia un’altra riflessione che merita di essere fatta. Ed è quella che riguarda l’opportunità, o meglio l’inopportunità, di far precedere questa alleanza necessitata da una feroce campagna elettorale di netta contrapposizione, che finirà inevitabilmente per lasciare strascichi. Se questo era il destino segnato già da dicembre, non era meglio annunciare l’alleanza già da prima?
Ne avrebbe guadagnato la trasparenza verso i cittadini (che paga elettoralmente), e si sarebbe messo il futuro governo al riparo da sorprese e tensioni. Si dirà: ma così ne avrebbe perso Bersani, che vuole fare il pieno a sinistra, e pure Monti che non avrebbe potuto intercettare voti ex berlusconiani in libera uscita. Può darsi. Ma è facile replicare che se Bersani fatica a vincere e se comunque sente il bisogno di aprire alle forze centriste anche in caso di vittoria, è proprio perché – preso dalla ricorrente ossessione degli ex Pci di non avere nulla alla loro sinistra – ha fatto l’alleanza con Vendola, che gli pregiudica la possibilità che i moderati lo votino, restringendo così il suo potenziale bacino elettorale alla solita e minoritaria area di sinistra classica.

Così come non è difficile replicare a Monti che a fine anno solo chi non aveva idea di quale effetto reale avrebbe avuto il suo “salire in campo” fatto in quel modo e con quella tempistica si poteva illudere di poter sovvertire le sorti di una partita che, per scelta di Bersani e Berlusconi e per le carenze dei “terzisti”, era tornata bipolare. E Monti, se fosse stato consapevole che con il 15% si può anche essere determinanti al Senato ma non si vincono le elezioni e, soprattutto, non si sovverte il sistema politico, avrebbe avuto tutto l’interesse a negoziare e annunciare prima il suo accordo con Bersani.

Invece, ognuno è andato pervicacemente per la sua strada, senza capire che l’intesa obbligata alla fine probabilmente si farà, ma con altrettanta probabilità sarà pasticciata e rischierà di durare poco.

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