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Newsletter TerzaRepub​blica n.2 del 12 gennaio 2013

Inutile girarci intorno: il Centro fatica maledettamente a decollare. In un inizio di campagna elettorale dominato dal ritorno di Berlusconi – che veste, da Zelig qual è, i panni del suo migliore travestimento: l’imbonitore in cerca di consenso – i riflettori accesi su Monti anziché significare benzina nel motore del nuovo soggetto “Scelta Civica” finora si sono tradotti in un deludente boomerang. Un po’ per i limiti della cosiddetta “agenda Monti”, un po’ per il modo con cui è nata e si è palesata la “cosa Monti”. Partiamo dalla prima.

La settimana scorsa abbiamo detto, con spirito assolutamente costruttivo, le ragioni politiche per cui secondo noi di Società Aperta l’agenda Monti appare necessaria ma insufficiente. Ora torniamo a calzare i panni dei dispensatori di consigli non richiesti all’area di centro che il presidente del Consiglio ha meritoriamente coagulato – nella convinzione che la sua iniziativa sia tanto importante per rompere l’eterno, e inconcludente, gioco bipolare, quanto bisognosa di “aggiustamenti” – per indicare i limiti più specificatamente programmatici della “agenda”. Il difetto maggiore sta nella mancanza di un disegno di respiro strategico che faccia immaginare agli italiani verso quale Paese s’intende portarli. Cosa tanto più necessaria visto che a indicare strada e punto d’arrivo dovrebbe essere colui che si è assunto la responsabilità – ed è questo sicuramente il merito principale di Monti – di imporre agli stessi italiani cui ora chiede il voto, i sacrifici necessari per evitare la catastrofe.

Il Professore parla di “economia sociale di mercato”, definizione un po’ retrò ma che ha il pregio di respingere le suggestione liberiste e mercatiste rimaste in piedi nonostante che la crisi finanziaria mondiale vada messa sul conto di chi ha predicato il laissez faire a tuti i costi. Meglio parlare, suggeriamo, di un progetto liberal-keynesiano, che non è un ossimoro, se si usa la concretezza del pragmatismo al posto del solito approccio ideologico-schematico. Progetto riformista (culturalmente debitore più a Ugo La Malfa che a De Gasperi) che propugna contemporaneamente “più Stato” – nel senso dell’assunzione di responsabilità della politica di indicare un modello di sviluppo e di intraprendere tutte le azioni di politica industriale, compresi gli investimenti strategici che i privati non fanno, necessarie a realizzarlo – e “più mercato”, nel senso delle liberalizzazioni necessarie a far sprigionare al meglio tutti gli “animal spirit” presenti nella società. E dove il rigore (nei conti pubblici, ma non solo) non si realizza con i tagli della spending review e le intemerate vessatorie sul Fisco (più spettacolari che concrete, tra l’altro), ma con grandi di riforme di sistema che oltre a portare risparmi o maggiori entrate, prima di tutto generino modernizzazioni, razionalizzazioni e semplificazioni burocratiche.

L’idea potrebbe essere quella di proporre un “patto agli italiani” dove ad essi si chiede di concorrere ad un risanamento virtuoso e definitivo della finanza pubblica, sia mettendo mano al portafoglio (non in modo punitivo) sia rinunciando ai vantaggi individuali e corporativi (ma dannosi per la collettività) derivanti dalla spesa pubblica corrente improduttiva, e in cambio si offrono investimenti e riduzione della pressione fiscale a favore della crescita, e quindi a vantaggio di occupazione, redditi e profitti. Come? Primo: intestare ad una società veicolo da quotare in Borsa il patrimonio pubblico dello Stato e degli enti locali, o quantomeno quella quota parte che si stima più facilmente valorizzabile. Secondo: obbligare i detentori di patrimonio privato, oltre una certa soglia e con percentuali progressive, a sottoscrivere i titoli (azionari e obbligazionari) della quotanda, a fronte di una definitiva cancellazione di tasse patrimoniali come l’Imu. Terzo: del ricavato di questa sorta di patrimoniale light, i due terzi vanno utilizzati per portare il rapporto debito-pil sotto la soglia del 100%. Quarto: il rimanente terzo deve essere impiegato sia per ridurre la pressione fiscale su imprese e lavoro, sia in investimenti in conto capitale, da concentrare tanto sulle grandi infrastrutture materiali e immateriali che servono al Paese per modernizzarsi, quanto per costruire e rafforzare la presenza del nostro sistema produttivo in alcuni settori strategici ad alta intensità di “capitale-tecnologia-innovazione” e che richiedono grandi dimensioni. Quinto: in questo disegno un ruolo centrale di ridisegno e rafforzamento del capitalismo italiano va assegnato alla Cdp, senza avere paura che si possa ribattezzare “nuova Iri”, visto che nella fase post-crisi del ’29 e della ricostruzione post-bellica l’istituto nato nel 1933 ebbe un ruolo decisivo e che ora l’Italia ha di fronte una stagione non dissimile da quelle. Sesto: 70 miliardi del ricavato devono essere obbligatoriamente usati per pagare i debiti delle pubbliche amministrazioni con le aziende e avviare un ciclo virtuoso di adeguamento ai tempi di pagamento europei (mettere subito denaro fresco nel motore è indispensabile per riavviare lo sviluppo). Settimo: ridurre la spesa pubblica corrente di almeno sette punti (dal 52% al 45% del pil), attraverso una decisa semplificazione del decentramento (riduzione a sette del numero delle Regioni, abolizione di tutte le Province e dei Comuni sotto i 5 mila abitanti, ecc.), una totale rivisitazione della sanità e un netto ridimensionamento dei dipendenti pubblici.

Siamo pronti a scommettere, con un po’ di presunzione, che questo piano, pur spaventando taluni, riscuoterebbe un consenso (anche elettorale) più significativo della troppo prudente e poco emotivamente coinvolgente “agenda”. Anche perché andrebbe a colmare un altro vuoto del progetto del nuovo Centro: l’appeal. Già l’operazione è apparsa tardiva – un conto era partire a settembre, in anticipo sulle primarie del Pd e prima del ritorno di Berlusconi, altro è arrivarci affannosamente e dopo un estenuante sfogliar la margherita (partecipo, non partecipo) da parte del premier – e poi anziché dar vita ad un nuovo partito, si è scelta la strada del rassemblement centrista. Non dando, così, l’idea della nascita di un nuovo soggetto politico capace di sbaragliare il vecchio bipolarismo, bensì di una scelta personale (quella del premier) con il contorno di vecchi aggregati. E senza nemmeno il vantaggio di aver rotto Pd e Pdl, vuoi perché il drenaggio è stato minimo, vuoi perché a quanto sembra – ma in queste condizioni era inevitabile – si fatica a inserire gli ex nelle liste. Insomma, un brodo, non un omogenizzato.

Il fatto è che non è scattato “l’effetto Kadima”, come ha acutamente osservato Stefano Menichini, cioè non si è realizzata quella convergenza sollecitata dalla responsabilità di fronte all’emergenza nazionale che nel 2005 scompaginò gli assetti consolidati (e logori) della politica israeliana. Almeno non per ora. È pensabile che succeda prima del 24-25 febbraio? C’è un solo modo: impegnarsi fin d’ora non solo a costituire un unico gruppo parlamentare sia alla Camera che al Senato, ma a dar vita ad un partito vero e proprio. Perché il tema non è tanto tenere unito il drappello di parlamentari che saranno eletti – cosa comunque non semplice, l’esperienza insegna – ma riuscire a farlo con tutti quelli che non lo saranno o, a maggior ragione, che non si sono neppure candidati. È una scelta che andava fatta prima, ma almeno che sia fatta ora. Lasciarla come eventuale opportunità per dopo le elezioni – vedremo poi se ce ne saranno le condizioni – significa essere sicuri che non accadrà. E poi farla ora, pur tardivamente, può dare quella spinta sul piano elettorale che l’incertezza sulle prospettive future di questa “cosa” troppo liquida per essere “solida” finora sembra negare.

Dunque, chiudete queste benedette liste, rendetevi conto che per quanto siano buone il meglio lo avrete comunque lasciato fuori, e mettetevi subito a lavorare – chiamando soprattutto i “non candidati” – a costruire il Pri, Partito Riformista Italiano, a vocazione liberaldemocratica, laico-socialista e popolare. L’alternativa è sorbirci ancora il bipolarismo, costruito sullo scontro tra berlusconismo e anti-berlusconismo. Quello andato in scena a “casa Santoro”. A tutto danno dell’Italia, che rischia di passare dal declino al disastro.

Analisi e commenti

La politica fiscale e la campagna elettorale
Ma quale Imu. Era meglio una bella obbligazione
Piangere ora sul latte versato non solo è tardivo, ma anche notevolmente irritante. Forse sarebbe più pagante, elettoralmente parlando, dire “abbiamo sbagliamo” e raccontare come s’intende metterci rimedio.
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11-01-2013
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Politica debole e magistratura
Fisco togato
I giudici di Milano hanno stabilito che non sussiste il reato di evasione fiscale se il cittadino e l’impresa che non pagano vantano crediti dalla pubblica amministrazione.
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