Responsabilità  ed accordi

Di Carlo Di Stanislao
Anche se dice, contrariamente alla Merckel, che un accordo sarà certo trovato, Monti minaccia il veto italiano al vertice di Bruxelles, se le richieste sul bilancio 2014-2020 non dovessero essere accolte. Certamente il negoziato che si svolge in queste ore è molto complesso ed oggi comincerà la fase dura, fra borse strette di Germania, Olanda, Inghilterra e Svezia e cordini più allentati da parte di Spagna, Italia e Francia, con Hollande, che tira il fiato per la conferma della tripla AA (anche se con outlook negativo) di Standard and Poor e dichiara che gli eventuali tagli alla Pac (da 25,5 a 17,8 miliardi) non possono essere accettati.
Nel frattempo nel suo intervento all'European Banking Congress a Francoforte, Mario Draghi ha detto che l’azione della Bce si è rivelata essenziale contro uno scenario disastroso ed ha aggiunto che “ i paesi che hanno varato programmi di risanamento dei conti pubblici”sono sempre più penalizzati dai mercati finanziari a causa del perso aggiuntivo che devono sopportare per sostenere le loro banche”; aggiungendo che “Il circolo vizioso tra banche e debito sovrano ha effetti negativi anche sugli sforzi per riportare la sostenibilità delle finanze pubbliche”.
Ed ha concluso affermando che: “è necessario realizzare tempestivamente”l'unione bancaria, ma bisogna farla bene, creando le basi legali per la vigilanza bancaria unica in Europa, idealmente già dal 2013″.
Tornando al vertice di Bruxelles in cui i 27 Paesi della Ue si confrontano sul bilancio 2014-2020, dopo aver esaminato l'ultima bozza di compromesso messa sul tavolo la scorsa notte da Van Rompuy, l'Italia – che punta a limitare i tagli sull'agricoltura, sui fondi di coesione e quindi l'impatto sul saldo netto negativo – ha fatto sapere di ritenere “insufficienti” i progressi fatti finora.
Una posizione espressa anche, ma per motivi opposti, da Cameron, secondo il quale il quale non ci sono ancora abbastanza tagli, così come chiesto da Londra.
Oltre alle Merkel anche il premier lussemburghese, nonché presidente dell'Eurogruppo, Jean-Claude Juncker, afferma che non si giungerà a nulla, in quanto “la nuova bozza è un progresso, ma non sufficiente ed è probabile che ci sia un nuovo summit sul bilancio a gennaio-febbraio”. Secondo fonti del Consiglio il vero problema ora non sarebbe più Cameron, ma il non sanato disaccordo tra Merkel e Hollande, per cui, adesso, la questione é politica e non più economica.
La stessa cosa l’aveva detta Napolitano nella sia visita in Francia tre giorni fa, affermando che la disoccupazione si combatte, nonostante la crisi, con scelte politiche forti e coraggiose.
Se a questo si aggiunge che, dopo il discorso di Ben Benanke, presidente della Fed all’Ecomnomic Club di New York, gli USA, per riprendersi, sono pronti a fare a pezzi l’Europa, non c’è davvero da stare allegri.
Ieri, nel corso di una sua lezione a Torino, Timothy Besley, professore della London School of Economics, ha detto che è sempre sbagliato contrapporre stati e mercati, perché un mercato forte richiede uno stato altrettanto forte.
Quanto all’altro dubbio spesso emerso durante la crisi, sulla sostenibilità del modello sociale europeo con tassi di crescita ormai cronicamente bassi, Besley si è detto convinto che sia un nodo importante, ma risolvibile attraverso una maggiore convergenza politica e sociale, rinunciando a scelte incentrate su morbide altalene congiunturali, che aprono a possibili disastri e rammentando che i mercati sono estremamente importanti per creare ricchezza e innovazione, ma la questione è come farli convivere con gli Stati; poiché l’esperienza ci insegna, ad esempio, che le nazionalizzazioni hanno creato molti guai ed al contempo, l’evidenza empirica ci dice anche, in maniera molto chiara, che lo Stato è il miglior garante possibile di un servizio fondamentale come la sanità.
Negli ultimi anni, ha detto l’economista, sono cresciute enormemente le diseguaglianze e vi è una sensazione diffusa secondo cui il prezzo della crisi lo stanno pagando i più deboli, mentre i ricchi, che hanno beneficiato del boom degli scorsi anni, non stanno pagando un granché.
In America Obama vi sta mettendo rimedio ed occorre che questo lo si faccia in Italia e nel resto d’Europa, secondo un principio di distribuzioni di oneri in relazione alle proprie sostanze.
Assunzione di impegno e di responsabilità, così come si chiede alle parti che hanno siglato un accordo che, se salta, deve avere dei responsabili chiari da chiamare in causa.
Mi riferisco in questo caso all’uccisione di un giovane palestinese dal fuoco di militari israeliani nel Sud della striscia di Gaza, dopo che è stata siglata una tregua fra Palestina e Israele che però il 49% dei figli di Davide rifiuta, soprattutto nel Sud del paese, quello più colpito dai razzi lanciati nei mesi scorsi e durante l’operazione ‘Colonna di Nuvola’, i cui abitanti non nascondono “confusione e frustrazione” e si chiedono se non fosse stato meglio andare fino in fondo.
Ed è proprio qui, nella zona agricola a di al-Qarara, presso Khan Yunes, che è avvenuto l’incidente, quando un gruppo di persone ha cercato di raggiungere appezzamenti di terra vicini alle linee di demarcazione con Israele, per appendere ai fili spinati una bandiera di Hamas.
Oggi, il vicepremier israeliano Dan Meridor, in dichiarazioni all’ANSA, ha ammesso che “molti israeliani avrebbero sperato una continuazione delle operazioni militari”.
Un sentimento “comprensibile”, ha detto, sottolineando tuttavia che il governo deve “avere una visione più ampia e strategica rispetto a quella del singolo cittadino”. “Se poi Hamas non dovesse rispettare il cessate il fuoco, allora – ha concluso – tutte le opzioni sarebbero in mano nostra e agli occhi del mondo saremmo ancor più legittimati a rispondere”. Da Gaza continuano peraltro a risuonare le grida di trionfo dei leader e dei militanti di Hamas, convinti di aver fermato “il nemico sionista” anche grazie al nuovo ruolo di mediazione del Egitto post-Mubarak del Fratello musulmano Mohamed Morsi. Mentre sul piano diplomatico l’Autorità nazionale palestinese del presidente moderato Abu Mazen prova a recuperare posizioni rilanciando – a dispetto dell’opposizione israeliana e dei moniti Usa – l’iniziativa a Palazzo di Vetro per “il riconoscimento della Palestina come Stato non membro dell’Onu”: andremo dritti allo scopo, ha tagliato corto il negoziatore capo Saeb Erekat, confermando il 29 novembre come data per la resa dei conti dinanzi all’Assemblea generale.

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