Emigrati italiani in Svizzera…chiamati!

Purtroppo l'idea che nel dopoguerra decine e centinaia di migliaia di disoccupati italiani si accalcassero alla frontiera svizzera in cerca di lavoro è assai diffusa in molta letteratura sull'immigrazione in Svizzera e nell’opinione pubblica. E’ un’idea infondata. Proprio qualche giorno fa ho visto la segnalazione di un volume di Paolo Barcella di recente pubblicazione con un titolo che, almeno apparentemente, non lascia dubbi: Venuti qui per cercare lavoro. Gli emigrati italiani nella Svizzera del secondo dopoguerra.
Non avendo avuto ancora la possibilità di leggere il libro, non entro nel merito e voglio sperare che quanto sto per dire venga contraddetto dal contenuto dell’opera. Resta il fatto che quel titolo mi pare a prima vista fuorviante e infondato. Preso infatti alla lettera, suggerisce l’idea che nel secondo dopoguerra gli italiani si siano precipitati in massa alle frontiere con la Svizzera in cerca di lavoro e addirittura che questa ricerca sia la caratteristica dominante di tutti «gli emigrati italiani in Svizzera del secondo dopoguerra».
Questa idea è del tutto o in massima parte infondata. Basti ricordare che durante la guerra le frontiere della Svizzera erano chiuse e quando, alla fine del conflitto, furono riaperte, i controlli erano strettissimi. Nemmeno gli italiani, nonostante il trattato di libera circolazione tra l’Italia e la Svizzera del 1868, potevano entrare liberamente. Si entrava solo con permessi regolari. Perché allora nel secondo dopoguerra arrivarono in questo Paese decine di migliaia di immigrati italiani? La risposta è semplice: perché chiamati!
La Svizzera, uscita quasi illesa dalla guerra, aveva un disperato bisogno di manodopera estera, essendo quella indigena assolutamente insufficiente e in parte indisponibile per certi lavori, soprattutto nelle industrie pesanti e nei cantieri d’alta montagna. Non potendola ottenere dalla Germania e dall’Austria (perché le potenze occupanti non concedevano permessi di emigrazione) e nemmeno dalla Francia (perché non aveva esuberi da collocare all’estero), la Svizzera si rivolse all’Italia, in cui la manodopera era disponibile.
Nel dopoguerra, infatti, soprattutto nell’Italia del nord, c’era molta disoccupazione, perché molte fabbriche non erano state ancora convertite da un’economia di guerra a una produzione per usi civili. Va però ricordato che gran parte di questi disoccupati erano lavoratori qualificati dell’industria e questo la Svizzera lo sapeva. E poiché all’economia svizzera faceva gola questa manodopera qualificata, autorità e imprenditori svizzeri si adoperarono in tutti i modi, attraverso le vie diplomatiche, le organizzazioni professionali e propri emissari, per accaparrarsela. Di fatto le autorità svizzere favorirono questa immigrazione qualificata.
Già nel 1946 la Svizzera aveva messo a disposizione degli italiani diverse migliaia di autorizzazioni di cui poterono beneficiare 48.808 lavoratori immigrati. Le autorizzazioni furono portate a oltre 126 mila nel 1947, ma solo 105.112 furono effettivamente sfruttate a causa della lenta e farraginosa burocrazia italiana del dopoguerra.
Anche negli anni seguenti i lavoratori italiani erano molto ricercati, altro che «venuti per cercare lavoro». La situazione mutò, sotto questo profilo, negli anni ’50, quando cominciarono ad arrivare gli immigrati meridionali in massima parte non qualificati e poco scolarizzati. Ma anche loro, in qualche modo erano «chiamati», perché fino agli anni ’70 l’economia svizzera aveva bisogno di molta manodopera, anche generica.
Oltre agli immigrati che potremmo chiamare «regolari» ce ne furono sicuramente altri che giunsero in Svizzera senza alcun permesso, ma non «clandestinamente». Anche a questi, infatti, bastava un passaporto turistico per entrare legalmente in Svizzera e cercarsi un posto di lavoro, evitando le lungaggini della burocrazia italiana. Ottenuto il permesso di lavoro, generalmente tramite familiari o amici, era facile ottenere anche le necessarie autorizzazioni svizzere.
Del resto lo stesso Ufficio federale del lavoro si lamentava con le autorità diplomatiche italiane della lentezza con cui venivano assegnati i permessi di emigrazione e del ritardo negli arrivi in Svizzera dei lavoratori autorizzati. Fu anche per questa ragione che molti imprenditori svizzeri furono indotti a cercarsi direttamente sul posto, tramite le Camere del lavoro e gli Uffici del lavoro italiani o reclutatori propri, la manodopera di cui abbisognavano e a provvedere direttamente ai relativi permessi.
Per concludere, vorrei ricordare che un attento osservatore del fenomeno migratorio italiano del dopoguerra, il grande scrittore svizzero Max Frisch, nella sua celebre frase sugli immigrati non scrisse: «son venuti qui per cercare lavoro…», ma «abbiamo chiamato …». Come non dargli ragione?
Giovanni Longu
Berna, 15.11.2012

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