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Una balena per L’Aquila

Di Carlo Di Stanislao
Dei dieci film che compongono la nuova (decima) stagione di Cinema e Psichiatria, avviata a L’Aquila e Provincia dal 15 ottobre, organizzata dal Dipartimento di Salute Mentale della ASL01 e dall’Istituto Cinematografico Lanterna Magica (attivissimo, nonostante i tagli alla cultura), ve ne è uno, soprattutto, da non mancare.
Si tratta di “Jona che visse nella balena”, realizzato da Roberto Faenza nel 1993, riuscito tentativo di rispecchiare l’orrore e la surreale semplicità delle pagine autobiografiche di Jona Oberski (classe 1938), autore del libro (magnifico) “Anni d'infanzia” (editrice Giuntina), che, come il più celebre “Il diario di Anna Frank”, racconta, con la freschezza dello sguardo infantile che si posa su persone ed eventi, come uscire dall’orrore di uno sterminio sistematico e non solo da quello nazista.
Magnifico è il modo di procedere adottato da Faenza nel racconto di un dramma privato che è collettivo, con un ragazzino strappato al suo mondo di giochi, pupazzi e carillon per essere gettato con violenza tra i reticolati concentrazionali del lager.
Jona impara a vivere e a guardare (attenzione alle numerose scene in cui osserva il mondo dal vetro di una finestra, o al ricorrente tema del chiudere e riaprire gli occhi) con lo sgomento attonito di chi è stato costretto dalla vita a diventare grande troppo in fretta.
Ma la cosa più notevole (del libro e del film) è la raccomandazione della madre a rinunciare all’odio e alla vendetta, ad andare avanti recuperando la memoria, che ci ricorda ogni volta chi siamo e verso quale direzione, nonostante tutto, dobbiamo andare.
Senza lo spreco di spettacolarità di Schindler’s List e con la forza di grandi pellicole come La vita è bella di Benigni o di Train de vie di Mihaileanu, certamente meglio di quanto non faccia Rosi con La Tregua, Faenza, in primo luogo, non chiama lo spettatore alla commozione facile, concentrandosi su una narrazione lieve ma pungente e, in secondo luogo, ha il merito di non allontanarsi dall’esperienza del ragazzino per cadere in tentazioni autoriali evidentemente fuori luogo.
La sua macchina da presa non si allontana mai da Jonah, ci fa vedere solo quello che vede lui. Per ultimo riesce a raccontarci il bisogno di comunità del popolo ebreo attraverso una chiave di comprensione universale come la musica (eccellente la colonna sonora di Moricone, vincitore del Donatello per il film, come Faenza come regista e Elisabetta Beraldo, per i costumi).
Il rapporto fra Faenza e la letteratura è antico e risale al 1978, quando firmò il film “maledetto” Forza Italia!, sul potere di allora, che venne subito censurato e gli costò l’ostracismo per oltre 15 anni.
La progettazione era iniziata nel 1975, sull'onda del successo elettorale delle sinistre. L’idea era quella di realizzare una pellicola contro il potere politico che nel nostro paese non aveva mai consentito una contro-informazione. “Forza Italia” fu così il primo film di satira politica: c'era solo un precedente, “All'armi siam fascisti” (1961) che tuttavia non riguardava l'attualità. Il film fu realizzato con i finanziamenti pubblici e vennero usati materiali degli archivi del cinema e della Tv non solo italiana ma anche svizzera, americana, spagnola e norvegese. Fu una novità dirompente perché per la prima volta portava sullo schermo le facce dei potenti, di cui venivano colte contraddizioni, menzogne, falsità. Un vero atto di controinformazione, un evento culturale esplicitamente antisistema, realizzato con materiale di repertorio che ripercorre trent'anni di potere democristiano in Italia, dal viaggio di Alcide De Gasperi in Usa (1947) al congresso della Dc del 1976. Scomparso dalle sale dopo 60 giorni di proiezioni e 250.000 spettatori, Forza Italia non ha commenti fuori campo e ritrae l'Italia del potere attraverso i volti, i nomi, gli avvenimenti politici, sociali e di costume, i movimenti e anche i gesti dei notabili, dei potenti, dei padroni del Palazzo, con un esplicito manifesto che raffigurava i notabili Dc intorno al “cadavere dell'Italia”.
Qualcosa di simile Faenza lo ha ritentato nel 2011, con “Silvio Forever”, firmato assieme a Filippo Macelloni, con sceneggiatura di Gian Antonio Stella, film certamente non completamente riuscito, ma che, comunque, molto meglio che in altri casi, descrive la deriva dell’Italia recente e pur non essendo militante, ci racconta del Berlusconi showman e animale da palcoscenico, con una incredibile capacità di raccontare bugie, sempre contro i giudici, ma pronto a difendere Dell'Utri e capace di farsi scivolare addosso, senza alcun danno, le accuse pesanti che gli ha rivolto la moglie prima di chiedere il divorzio.
Tornando a Faenza e alla letteratura, anche il suo ultimo film nasce da un libro: Un giorno questo dolore ti sarà utile, dall’omonimo romanzo del giovane statunitense Peter Cameron, girato negli USA, cosa non nuova per l’autore che, spesso, ha girato i suoi film all’estero e con attori americani, inglesi o francesi, come nel caso di Copkiller” (1983), “Mio caro dottor Grasler” (1990), il nostro “Jona che visse nella balena” (1993) e, ancora, “Sostiene Pereira” (1994), “Marianna Ucrìa” (1997) e “L'amante perduto” (1999).
Truffaut, che di letteratura era ghiotto ed appassionato, sosteneva che non era assolutamente necessario, anzi, partire da un buon romanzo. Anzi, un romanzo mediocre può diventare un bellissimo film; come da un bellissimo romanzo può venir fuori un pessimo film.
Altro pregiudizio da sfatare è che cinema e letteratura siano due linguaggi simili. È vero invece esattamente il contrario. La letteratura evoca, il cinema mostra. Dunque, nulla di più diverso. Ne era convinto lo stesso Pasolini quando scrisse, in premessa alla sceneggiatura di Accattone, che l’espressione cinematografica “ manca quasi del tutto di una figura, la metafora, di cui invece l’espressione letteraria consiste quasi esclusivamente “.
Ora, a parte il fatto che il romanzo è molto bello, per misurare la distanza dal film vi è proprio l’esempio di “Jona” di Faenza: un motivo in più per vederlo il 26 ottobre all’auditorium Sericchi della Carispaq, in via Strinella a L’aquila, con inizio alle 17 e introduzione e dibattito finale coordinati dalla dottoressa Mirella Del Principe.
Potremo così scoprire che il film ci riguarda (noi aquilani), molto da vicino, perché ci insegna che, per superare un trauma grave e luttuoso, occorre esprimerlo ed elaborarlo, avendo l'opportunità di parlare a fondo della propria esperienza e degli effetti in un contesto sicuro, al fine di disattivare le sensazioni disturbanti presenti in memoria e dar voce al malessere provato: rievocare ogni dettaglio che turba emotivamente, vivere sensazioni e pensieri che derivano dall'evento traumatico, sperimentare il dolore e il disagio affrontandolo, sentendosi pronti e in grado di gestirlo.
Può risultare importante, ad esempio, riconoscere sensi di colpa (ci si sente responsabili di aver contribuito a causare la situazione) e vergogna (profondo senso di umiliazione, percezione di sè come cattivi, sporchi, rovinati, indesiderabili, difettosi) e superarli, gestendo difficoltà e rabbia (male interiore; da ascoltare e affrontare con amore e pazienza il dolore che nasconde), al fine di rinforzare l'autostima.
L'obiettivo è promuovere la resilienza, comprendere quanto è accaduto e accade nel mondo interiore e cercare il superamento che non sia revancismo o vendetta.
Oggi, intervenendo sulla condanna aquilana ai sette esperti della Commissione Grandi Rischi, Umberto Veronesi, ex ministro della sanità e direttore scientifico dell’Istituto europeo di oncologia, sul Corriere della Sera, ha parlato non di giustizia, ma di vendetta, di sentenza che “riflette una concezione di giustizia antica, non in linea con gli standard di illuminata civiltà e difesa della Costituzione che la nostra magistratura normalmente manifesta. Una giustizia che sentenzia senza capire e senza analizzare, che pare volere soddisfare gli istinti peggiori dei familiari e dei sopravvissuti, crea un precedente pericoloso che non fa parte della nostra cultura”.
Alla luce dei fatti, invece, vorremmo ricordare a Veronesi (e agli altri), che i tecnici furono sicuramente influenzati dalla gestione politica dei giorni immediatamente precedenti il 6 aprile tramite il Capo della Protezione Civile Bertolaso e, in base a questo, dovevano dimettersi allora e non adesso.
Inoltre, il Comitato non è che non si sia pronunciato, stante l'imprevedibilità del terremoto, ma ha rassicurato la popolazione.
Ed è questo il punto fondamentale. Con tutti quegli sciami sismici la forte scossa poteva esserci come non poteva esserci e se i tecnici si fossero pronunciati in tal senso credo che i cittadini aquilani avrebbero provveduto da soli.
Ma, allo steso tempo (e questa reciprocità si vede bene nel libro e nel libro di Oberski e nel film di Faenza), la sentenza sembra anche gettare fumo negli occhi, condannando solo i facili bersagli e senza nessun accenno di responsabili politici, amministrativi e costruttori, che, negli anni del boom economico, quando c'era il boom economico, quando si investiva nei fabbricati, quando il governo pagava per infrastrutture a peso d'oro, hanno costruito palazzi e palazzine venuti giù come castelli di sabbia.
Nel racconto di Jona la balena, in quanto “mostro” marino, è simbolo del caos precedente la rinascita e i tre giorni trascorsi a nel ventre del mostro richiamano la resurrezione di Gesù, poiché, infatti, secondo il linguaggio biblico, “tre giorni” rappresenta lo spazio di tempo al di là del quale la morte è definitiva ed irreversibile.
Ora, ci dicono alcuni biblisti, che chiaro appare il messaggio del libro di Giona, al di là del linguaggio metaforico usato dall'autore, con un racconto in cui il profeta non si rassegna ad accettare un Dio misericordioso, preferendogli il Dio del giudizio inesorabile. Ma, al suo sfogo, che rasenta la bestemmia, Iddio risponde con la parabola del ricino, il cui significato è altrettanto chiaro. Noi tutti siamo pronti a preoccuparci per le piccole cose della vita; perché Dio non dovrebbe preoccuparsi altrettanto dell'intera umanità, anche quella peccatrice e pagana, affinché possa essere salvata essa pure.
Ma vi è una nota in più in questo messaggio: perché Giona acceda al perdono e alla misericordia, occorre che chi ha sbagliato riconosca, almeno, la sua colpa.
Neuman, il più brillante degli allievi di Jung, parlando del racconto di Jona, riprende le idee portanti del maestro, affrescando un quadro ancora più ampio a partire dai contesti culturali più vari nell’inseguire l’archetipo della “Grande Madre”. Di quest’archetipo egli individua due aspetti: uno elementare che genera e libera, l’altro, quello della “Terribile Madre Divorante”, che divora l’eroe e lo getta nel grande vaso che è il suo ventre. Per il nostro autore, il ventre designa anche “il percorso notturno degli astri attraverso il mondo sotterraneo; è il ventre del ‘drago-balena’ che ogni notte divora il sole, come ha fatto con Giona”, per poi generare una rinascita.
E per questa rinascita, noi aquilani, abbiamo bisogno non solo di sostegno e solidarietà, ma di luce che illumini completamente ogni singolo fatto ed ogni singola responsabilità.

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