The Amazing Spider-Man

Cristofer Nolan è senza dubbio uno degli autori più importanti degli ultimi dieci anni. Probabilmente qualcuno penserà di aver sbagliato recensione. In realtà “The Amazing Spider-Man”, e Marc Webb, devono moltissimo al regista inglese che con la sua trilogia sul pipistrello mascherato ha rivoluzionato una tradizione oramai consolidata all’interno di un genere che, salvo rare eccezioni (Tim Burton), si può dire soffra di un’estetica cinematografica piuttosto conservatrice. Webb deve molto anche ad Alan Moore. È merito di quest’ultimo infatti se il supereroe del XXI secolo sia diventato talmente “umano” che può addirittura essere rimproverato da una zia preoccupata perché non ha comprato le uova al ritorno da una delle sue scorribande; oppure, come il più classico degli studenti che viaggia in metropolitana, può decidere, tra una avventura e un’altra, di farsi una partita a Puzzle Bobble sul suo telefonino (che tra l’altro, come a tutti, squilla sempre per stupidaggini nei momenti cruciali della giornata).
Il nuovo capitolo della saga dell’uomo ragno, lo dico subito, non mi ha colpito. Seppur ben confezionato (ma al giorno d’oggi è difficile vedere un prodotto di Hollywood che non lo sia), regia e fotografia sono piatte. La sceneggiatura, anche nei suoi momenti migliore, è sempre molto prevedibile: neanche gli oramai abusati riferimenti colti disseminati nella pellicola (in fondo chiunque può permettersi di noleggiare “un umanista” per infarcire la propria opera di citazioni) riescono a vivacizzare (e come potrebbero?) battute spesso più che telefonate. Allo spettatore non resta altro da fare che confidare nei costosissimi effetti speciali che normalmente abbondano in questo tipo di film. Niente da fare. Gli effetti speciali sono solo ordinaria amministrazione e non può bastare l’inutile 3D per dare la svolta attesa.
Il limite più evidente di “The Amazing Spider-Man” è però l’essere a metà strada tra il classico action movie e la pellicola di introspezione. Certo il personaggio di Peter Parker per contratto ha una storia familiare travagliata. Ma l’introspezione dopo Bergaman (perdonate se potete questa esternazione!) non può risolversi con la metafora della diversità e il problema della scelta tra il bene che sembra male e il male che sembra bene. Inoltre, in tempi di crisi come il nostro, è farsesco richiamare (ancora!) il presunto dramma del supereroe costretto a sopportare i disagi di una doppia vita. Disaggi che, per inciso, credo che chiunque accetterebbe visti i molti vantaggi a fronte dei pochissimi svantaggi. E allora meglio sarebbe stato puntare solo sull’azione, che invece nella pellicola si limita ai soliti “voli” tra i palazzi, qualche ceffone a una lucertola e il salvataggio di un bambino (prima) e di una bionda (poi).
Insomma non ci resta che sperare che il cavaliere oscuro, almeno lui, non ci tradisca. O forse che ci tradisca alla sua maniera.

Roberto Colonna

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