Tagliare il debito: meglio tardi che mai. Dopo la proposta presentata dal presidente della commissione Finanze del Senato, Mario Baldassarri, con l’adesione di 39 senatori, di creare un Fondo Immobiliare Italia a cui conferire 400 miliardi di patrimonio immobiliare pubblico per abbattere il rapporto debito-pil sotto la soglia del 100%, ora è la volta di Angelino Alfano, che ha lanciato un progetto analogo. Nel primo caso Baldassarri ha avuto come “tutore” l’ex Ragioniere generale dello Stato, Andrea Monorchio, nel secondo caso ci ha lavorato Brunetta con Masera, Forte e Savona. Ma in entrambi i casi si parla di far nascere un soggetto cui afferire gli immobili pubblici per circa 400 miliardi, che emetterebbe obbligazioni (magari con warrant per trasformarle in azioni) per ricavare velocemente (uno-due anni) risorse senza dover vendere subito gli immobili stessi o attendere i tempi lunghi di una loro razionalizzazione e valorizzazione prima di essere piano piano dismessi.
Peccato, però, che l’emendamento alla spending review attraverso cui si è materializzata la proposta Baldassarri sia stato nel frattempo bocciato, mentre la proposta che Alfano si è impegnato a presentare a Monti prima di Ferragosto deve fare i conti con l’orientamento finora poco favorevole del governo, che al massimo si è spinto con il ministro Grilli a dirsi disposto ad un programma di dismissioni d 15-20 miliardi l’anno. In entrambi i casi, poi, si sfugge ad un nodo politico decisivo: l’obbligatorietà o meno della sottoscrizione dei titoli del fondo. Si sfugge nel senso che non evocando questa eventualità, si deve presumere che i promotori siano contrari, oppure che per prudenza (paura) intendano tirar fuori il tema solo in ultima istanza? La questione è decisiva non solo ai fini della buona riuscita dell’operazione, ma anche della credibilità che essa può avere agli occhi dei mercati nella eventuale fase di lancio, visto che non essendo possibile ricavare in un colpo solo le risorse che essa genera e portarle altrettanto velocemente a riduzione del debito, tutto sarebbe affidato al grado di convincimento che gli operatori si farebbero circa il buon esito finale dell’iniziativa. Ci darebbero credito dopo anni di latitanza e tante incertezze? L’impressione – e preoccupazione – è che la volontarietà della sottoscrizione lascerebbe incerti i mercati, i quali nel dubbio finirebbero per bocciarla, mandando a monte tutto.
Ecco perché quando come Società Aperta abbiamo lanciato l’idea – ahinoi, molto tempo fa e di nuovo più recentemente – abbiamo apertamente parlato di obbligatorietà di acquisto sulla base del patrimonio privato delle persone fisiche e giuridiche. La reazione (sguaiata) di taluni è stata: ma è un prestito forzoso! Sì, lo si chiami come si vuole, ma trattasi di una patrimoniale “light”. Perché della patrimoniale ha l’elemento coercitivo (come tutte le tasse), ma nello stesso tempo mette in condizioni chi paga di avere in cambio un valore, cioè un titolo capace di generare un rendimento e successivamente negoziabile sul mercato secondario. Una differenza davvero non trascurabile con una tassa “vuoto a perdere”. Certo, quando abbiamo (ri)lanciato il nostro progetto era l’inizio dell’avventura del governo Monti, e suggerimmo l’intervento sul debito come alternativo a quello sul deficit richiesto dalla famosa lettera della Bce quando ancora c’era Berlusconi a palazzo Chigi. Se si fosse adottata in quel momento questa linea, non ci sarebbe stata la “stangata” (ennesima, peraltro) e quindi, per esempio, ci saremmo risparmiati l’Imu, che è anch’essa una forma di patrimoniale. Peraltro molto più diffusa perché tocca tutti i proprietari di immobili, mentre nel caso della “taglia-debito” i patrimoni cui chiedere il prestito forzoso sarebbero solo quelli da una certa soglia in su (da definire, ma per esempio a partire da 1 milione).
Questo per dire che si capisce l’obiezione di chi lamenta un ulteriore aggravio di oneri fiscali – per quanto compensati dai titoli dati in cambio – ma è pur vero che questi strali dovrebbero essere indirizzati verso chi ha fatto altre scelte (e tuttora fa orecchie da mercante verso la proposta “taglia-debito”). In tutti i casi, accogliamo volentieri alcuni suggerimenti che ci sono venuti. Tutti riconducibili alla necessità di assicurare sgravi fiscali successivi a chi dovrà aderire all’acquisto obbligatorio dei titoli: si può discutere quali, quando e come, ma è un giusto obiettivo.
Un paio di altre differenze distinguono la nostra proposta da quelle di Baldassarri e Alfano. Per prima cosa, noi preferiamo una società da quotare in Borsa a un fondo immobiliare, perché pensiamo che nel suo portafoglio debbano confluire non solo il mattone, ma anche tanti altri asset pubblici, comprese le partecipazioni del Tesoro, di Cdp e degli enti locali. L’operazione si farebbe più grande (700-800 miliardi) ma anche più diluibile nel tempo (è sufficiente annunciare ai mercati una tabella di marcia, e rispettarla). Questo consentirebbe – e qui siamo alla seconda differenza – di contare su risorse tali da non solo abbattere il debito, ma anche supportare lo sviluppo. Poi si può discutere come spendere questa parte, se come noi pensiamo con investimenti strategici in conto capitale che facciano da volano per quelli privati, o se ridurre la pressione fiscale (se c’è margine, entrambe le cose). Ma questo comunque fa la differenza.
Come il presidente di Società Aperta, Enrico Cisnetto, ha avuto modo di dire rendendo pubblico il suo diniego a firmare il documento di Oscar Giannino e altri amici liberisti (vedi newsletter precedente), l’importante è che sia chiaro che qualsiasi tecnicalità si adotti per mettere in campo il “taglia-debito” escluda quella che prevede di “vendere-vendere-vendere”, tutto e subito. Intanto perché dietro questo slogan si nasconde un ulteriore cessione di società strategiche – come Eni, Enel, Finmeccanica (che già fa lo spezzatino in proprio) – anzi, l’ultima svendita visto che del grande capitalismo italiano non c’è rimasto più nulla. E poi perché sugli immobili l’alternativa sarebbe o buttarli sul mercato, facendo crollare i prezzi (questo sì a danno degli italiani che nell’80% e più dei casi possiedono la casa dove abitano) o svenderli a grandi gruppi finanziari stranieri (che spesso sostengono finanziariamente i think tank finto-indipendenti che propagandano la teoria dello “stato minimo”).
Ricapitolando: a. speriamo che Monti finalmente si decida a confrontarsi sul tema debito; b. nel caso ci si possa incamminare su questa strada, tutti i sistemi vanno bene purché ci evitino di svendere; c. occorre avere il coraggio di dire che se l’operazione non prevede obblighi, ma è solo su basa volontaria, rischia di fallire; d. si allarghi il più possibile il perimetro in modo da recuperare risorse anche per lo sviluppo.
Una cosa è certa: o l’ultima fase del governo Monti e tutta la prossima legislatura sono improntate a questo progetto che amiamo definire “liberal-keynesiano”, o non sono.