Nell’ennesimo “venerdì nero” che segna la via crucis dell’eurosistema, lo spread spagnolo è salito oltre i 600 punti, e la ragione è tutta di natura finanziaria, fin troppo ben rappresentata dalla desolata affermazione del ministro Montoro che “non c’è un centesimo in cassa” e che “se la Bce non avesse comprato i titoli di Stato, il Paese sarebbe già fallito”. E quello italiano è tornato sopra quota 500, ma in questo caso il motivo è essenzialmente politico che, paradosso nel dramma, non riguarda il nostro presente, ma il futuro prossimo.
In Europa il contagio della crisi dilaga sui mercati dei debiti sovrani come e più che nei momenti di massima esplosione del crollo greco, e senza una risposta comunitaria – che purtroppo non pare essere all’orizzonte – resta come unica possibilità la reazione che sanno e possono mettere in campo i singoli paesi. Quella iberica non sembra esserci, tanto che la Spagna rischia seriamente di avviarsi alla dissoluzione nonostante gli aiuti ricevuti dal suo sistema bancario. Ciò che accade a Madrid è impressionante: nel 2008 la Spagna era ancora una economia in crescita, con tassi ben sopra la media europea; le sue banche giravano per l’Italia in cerca di buoni affari e la famiglia Botin era un apprezzato cliente dei ristoranti milanesi e romani; i capitali spagnoli si prendevano le compagnie aeree e petrolifere argentine e i suoi architetti gareggiavano con i colleghi inglesi e americani nel firmare le opere di mezzo mondo; i tedeschi andavano in vacanza sulle coste iberiche, la 'ndrangheta investiva quantità smisurate di quattrini nello sviluppo immobiliare e la polizia spagnola non collaborava con quella italiana nella caccia ai criminali mafiosi. Il tutto con il debito pubblico che stava pienamente dentro i parametri di Maastricht. In quattro anni sono finiti sul lastrico e non hanno di che pagare gli stipendi. C’è da scommettere che se la Cataluna avesse ancora due pesetas in tasca comprerebbe da Madrid la separazione consensuale.
E noi? L’Italia ha 2 mila miliardi di debito, di cui il 60% interno, ma detiene un patrimonio pubblico stimato in 1800 miliardi e uno privato che al netto del ridimensionamento dei valori immobiliari e dei prelievi per far fronte alla caduta del reddito, è tra i 7 e gli 8 mila miliardi. Chi fallirebbe in una condizione del genere? Nessuno. Eppure corriamo questo rischio. Perché abbiamo tassi di crescita infinitesimali da un ventennio, e per di più siamo i detentori (Grecia a parte) del maggior livello di recessione nella Ue (quella del 2008-2009 e l’attuale)? Perché abbiamo livelli di produttività e competitività da far schifo? Perché continuiamo ad avere il 17% di pil sommerso e siamo recordman mondiali nell’abbinare dimensione della spesa pubblica (52% del pil) e livello di pressione fiscale (55% se calcolato al netto dell’evasione)? Anche per tutto questo. Ma soprattutto, perché non siamo credibili.
Non lo siamo stati quando c’erano Ciampi e Prodi al governo, che pure in Europa godevano di una certa stima. Tantomeno siamo stati credibili con Berlusconi. Ma da quando c’è Monti a palazzo Chigi le cose nettamente migliorate, in termini di percezione forse anche al di là dei suoi meriti oggettivi. C’era bisogno di una discontinuità, e il governo Monti l’ha assicurata. Eppure non basta. Perché? Per il semplice motivo che Monti è, per sua stessa volontà, transitorio. E tutti – i mercati come i partner europei – temono che quella di Monti si ridimensioni ad una semplice parentesi, che una volta chiusa faccia tornare il sistema politico al punto in cui aveva finalmente interrotto la fallimentare esperienza del bipolarismo armato. In quale così, come mostrano l’arroccamento bipolare del Pd e il ricandidatura di Berlusconi, tornerebbe prepotentemente ad essere la cifra della nostra politica.
“Se già Monti ha fatto e fa fatica a tenere la barra dritta delle riforme, mostrando grande difficoltà ad andare oltre la logica emergenziale della manovra sul deficit corrente, figuriamoci dopo che non ci sarà più lui a dirigere l’orchestra”, è il pensiero – tanto semplice quanto netto – di chi tiene gli occhi incollati sull’Italia. Difficile dargli torto. E siccome dal fronte europeo non si batte un colpo, e visto che dopo la Grecia un paese grande e decisivo come la Spagna finisce finanziariamente a gambe all’aria, ecco che il ritorno all’orizzonte della scena della “non credibilità” italica espone l’Italia al contagio, con il rischio, di conseguenza, che il default politico si trasformi in default finanziario.
È evidente che dobbiamo scongiurare questa drammatica eventualità, e per farlo non occorrono altre manovre congiunturali, ma un programma di medio termine che sommi un’operazione straordinaria sul debito – nei termini qui evocati molte volte – con una serie di riforme strutturali di grande respiro. Il che significa una condizione politica di larga collaborazione tra forze diverse, possibilmente nuove e rinnovate. Cioè esattamente il contrario di quello che s’intende fare.
Ecco dove sta il fondamento della lettura che i mercati danno della nostra situazione: capiscono che l’Italia rischia di tornare politicamente indietro. Che prevalga il centro-sinistra o che rivinca Berlusconi. E se per caso dalle urne dovesse uscire una situazione di empasse, come è possibile se la legge elettorale dovesse rimanere quella che abbiamo (diverse maggioranze tra Camera e Senato), si avrebbe una situazione greca o, nel migliore dei casi, una grande coalizione forzata che, come quella attuale, sarebbe destinata a sciogliersi nel giro di poco. Dunque, se vogliamo evitare che il contagio ci infetti, la difesa sta tutta nel delineare fin d’ora offerta elettorale e scenario politico-istituzionale del 2013. Ma in fretta.