I calcoli in
calcestruzzo
di Andrea Ermano
Nell’autunno del 1976 un mio ex compagno di liceo mi raccontò che qualche sera prima suo padre era improvvisamente corso all’uscio dell’appartamento e pretendeva insistentemente che lui lo seguisse. Il mio amico stava pigramente leggendo “il manifesto” sul divano del salotto. Il padre (che faceva l’ingegnere civile) aveva di recente acquistato quell’appartamento in una palazzina di recente costruzione, da lui stesso progettata, in una cittadina del Friuli.
L’ingegnere si era piazzato lì, il mezzo al vano dell’entrata con il suo tono di voce incavolato. Era perennemente incavolato o per un suo difetto di carattere o forse in seguito a delle torture fasciste da lui subite da partigiano.
Ingiunse al figlio di raggiungerlo nel vano della porta e di stargli accanto, sulla soglia.
Il mio amico, che amava contestare il padre come tutti noi ventenni di allora, eseguì quella volta, quell’unica volta, l’ordine paterno. Un agile balzo lo catapultò dal divano al fianco del genitore, tra gli stipiti della porta.
Non fu tradimento al comune spirito di rivolta, il suo. Bisogna, infatti, sapere che, quella sera era l’11 settembre del 1976 e vi furono due “spallate” lunghe e intense quasi quanto quelle che tre mesi e mezzo prima avevano inghiottito mille vite umane.
In quel contesto storico-geologico l’ingegnere mantenne i nervi saldi, apparve quasi tranquillo. Dalle sue pupille guizzi di sfida e di curiosità: “Voglio proprio vedere se la tromba delle scale regge anche stavolta”, confessò al figlio.
Fu uno dei rari momenti in cui si lasciò scappare un ingegneristico sorriso a mezza bocca.
La sua curiosità fu esaudita. L’irosità di tutta una vita fu perdonata. E anche la sottile superbia del momento. Perché evidentemente quel giorno Dio tenne conto di un unico criterio: i calcoli in calcestruzzo. Sempreché l’Altissimo esista e sia Lui a gestire i terremoti. Egli vide che i calcoli erano giusti. Che le scale non subivano lesioni strutturali. Che tutta la palazzina reggeva piuttosto bene.
L’Italia è un grande paese, un paese bellissimo. Ma anche un paese esposto a gravi rischi sismici, che ha accumulato un serio dissesto idrogeologico. Questo è quanto si deve dire e ribadire. Sulla scossa di ieri in Emilia non potremmo aggiungere qui nulla, oltre alla nostra solidarietà, che non sia stato già detto e scritto da quotidiani, radio e tv.
Resta il cordoglio per le persone spaventate a morte dall’evento sismico, e resta la pena indicibile per i quattro operai in turno di notte, che non hanno sentito nulla a causa del rumore dei macchinari e che sono rimasti sotto le macerie della fabbrica.
Per chi ha una sua esperienza diretta di terremoti. ogni volta è una dolorosa scossa di ricordi. E anche di rabbia. Rabbia per quel che si potrebbe (dovrebbe) fare, e mai si fa.
Vent’anni dopo la Strage Capaci. Città di Brindisi. Istituto Professionale di Stato “Francesca Laura Morvillo Falcone”. Arriva lo scuolabus. Tre bombole di gas esplodono in un cassonetto di fronte all’entrata. Sette studentesse sono ferite, due di esse gravemente. Muore Melissa Bassi, una ragazzina che neanche era nata quando la giudice Francesca Morvillo cadeva a Capaci insieme al marito Giovanni Falcone e a tre uomini della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro.
Quando apprendi notizie come queste, vieni preso da sconfortante vergogna per ciò che gli esseri umani riescono a fare ad altri esseri umani. Pensi che il crimine di Brindisi è ancora più ributtante della Strage di Capaci. Perché ammazzano delle ragazzine che non hanno fatto nulla a nessuno? Per lanciare un “segnale”? A chi?
Nelle prime ore successive all’attentato molti commentatori si sono chiesti se non sussista un legame tra i due sanguinosi episodi, quello di Brindisi e quello di Capaci. Le coincidenze di nomi e di date appaiono evidenti.
Alcuni opinionisti, soprattutto sui giornali di destra, hanno lamentato la debolezza dei servizi di sicurezza, altri richiesto l’intervento massiccio dell’esercito, altri ancora un cambio di governo.
La destra, che presagendo l'ennesima batosta si sente nell’angolo, sogna di cavalcare l’insicurezza della gente per via della crisi. Le strategie dell’informazione di destra vedrebbero bene un ritorno a logiche emergenziali. Il mostruoso attentato di Brindisi plausibilizza atmosfere da strategia della tensione. È certo, infatti, che l’esplosione sanguinaria all’Istituto Morvillo Falcone non è accaduta per errore umano.
Melissa Bassi
L’attentatore è un ometto di una certa età, probabilmente esperto di elettronica ma forse non altrettanto di tecniche investigative. Le videocamere del luogo lo hanno ripreso mentre attivava tramite telecomando un innesco volumetrico, una specie di dispositivo antifurto, che al passaggio delle ragazze ha fatto esplodere l’ordigno.
Forse si tratta di un crimine nato su scala locale. Forse il gesto isolato di un pazzo. Questo dicono gli esperti, senza escludere motivazioni ideologiche. Gli inquirenti hanno identificato un cinquantenne con un braccio “offeso”. La polizia gli sta ormai alle calcagna. Un Breivik brindisino? Non è dato saperlo. Allo stato attuale però non sembra sussistere alcun nesso tra Brindisi e Capaci.
L’uccisione di Falcone – come quella di Borsellino, d’altronde – non capitò inaspettatamente. Borsellino parlava spesso della sua condizione di “condannato a morte”. Dopo l’assassinio di Falcone disse di sapere che l’esplosivo a lui destinato era ormai giunto a Palermo. Chiese persino la rimozione dei veicoli parcheggiati sotto la casa dell’anziana madre, nel luogo in cui poi effettivamente avvenne l’attentato.
Falcone, per parte sua, era stato fatto oggetto di violentissimi attacchi da parte anche di persone che oggi lo celebrano, ma che allora contribuirono a isolarlo. E l’isolamento fu una delle condizioni della sua uccisione. Nel libro-intervista Cose di Cosa Nostra, nel quale egli disse a Marcelle Padovani che di mafia si muore “generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande”. Di mafia si muore “perché si è privi di sostegno”. Di mafia si muore come “servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere.” Questo dice Falcone nel 1991.
“A Giovanni è stato impedito nella sua città di fare i processi di mafia”, ricordava l’amica e collega Ilda Bocassini. “E allora lui ha scelto l'unica strada possibile, il ministero della Giustizia, per fare in modo che si realizzasse quel suo progetto: una struttura unitaria contro la mafia. Ed è stata una rivoluzione.”
Francesca Morvillo e Giovanni Falcone
Il ministro socialista era l’ultimo argine istituzionale contro l’accerchiamento. Martelli aveva in mente per Falcone il ruolo di Superprocuratore. La “stagione dei veleni” di Palermo e il calvario cui il Giudice venne sottoposto in quegli anni non lo piegarono. Tenne duro, continuò la sua battaglia contro la criminalità organizzata, ribatté con chiarezza e linearità alle accuse di concorrenti e avversari, difese la decisione del Ministero di Grazia e Giustizia d’istituire la Procura nazionale antimafia. Conquistò il consenso necessario ad assumerne la guida.
Giovanni Falcone vinse la battaglia per la Superprocura il giorno prima di essere ammazzato. Gli uomini di Cosa nostra impiegarono mezza tonnellata di tritolo per impedirgli di esercitare la funzione di Procuratore nazionale antimafia. Non hanno potuto però cancellare la sedimentazione umana, storica e istituzionale che Falcone ci ha lasciato insieme a questo semplice insegnamento: la mafia può essere sconfitta
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