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100 anni fa: gli italiani e la ferrovia della Jungfrau

Nei giorni scorsi è stato rievocato il centenario della caduta dell’ultimo diaframma della galleria ferroviaria che porta alla stazione più alta d’Europa a 3454 metri sullo Jungfraujoch. La ferrovia a cremagliera della Jungfrau, allora la più alta del mondo, sarebbe entrata in funzione alcuni mesi più tardi, il 1° agosto 1912.
Nel commemorare questo centenario viene ricordato a giusta ragione il suo iniziatore, l’imprenditore tessile Adolf Guyer-Zeller, mentre si tende a dimenticare i veri realizzatori dell’opera: gli oltre duecento minatori italiani e i pochi svizzeri che vi hanno lavorato nell’arco di 16 anni. Eppure la storia di questa ferrovia alpina, quasi tutta in galleria, non può essere scritta senza ricordare il contributo degli italiani.
Un progetto audace e ambizioso
Originariamente la destinazione finale doveva essere la Jungfrau a 4158 metri. Si trattava di un progetto ardito, ma in quell’epoca in cui la «febbre ferroviaria» aveva contagiato tutti, Confederazione, Cantoni e Comuni, banchieri e imprenditori, niente sembrava impossibile. La difficoltà dovuta all’altitudine sarebbe stata superata sfruttando dapprima la ferrovia già esistente che dalla valle di Lauterbrunnen porta a Grindelwald passando per la Kleine Scheidegg (a 2061 m s.l.m.) e di qui seguendo un percorso in galleria attraverso le tre più famose montagne bernesi, l’Eiger, il Mönch e la Jungfrau senza superare la pendenza critica del 25%.
Per vincere le difficoltà tipiche degli scavi in galleria, la competenza ed esperienza acquisite dalla Svizzera durante le realizzazioni apparentemente ben più impegnative delle gallerie già ultimate o in via di compimento come quelle del San Gottardo, del Sempione e del Lötschberg, inducevano un grande ottimismo. Inoltre, la prospettiva di far salire sulla Jungfrau, comodamente seduti sul treno, decine di migliaia di visitatori era una motivazione in grado di superare qualsiasi difficoltà di natura tecnica. Inoltre, i soldi c’erano, la tecnologia era disponibile, la manodopera anche.
Già la manodopera! Si poteva facilmente attingere da quel grande serbatoio rappresentato dalle migliaia di italiani che ormai da alcuni decenni erano praticamente presenti in ogni grande impresa ferroviaria svizzera. Il censimento federale delle aziende del 1905 ne aveva censito ben 45.321 su un totale di poco più di 70.000 addetti alla costruzione delle ferrovie e delle strade, gli italiani risultarono ben 45.321. La parte restante era costituita da svizzeri (poco più di 20.000), tedeschi, austriaci, francesi, ma nelle gallerie lavoravano quasi esclusivamente italiani. Ne sarebbero bastate poche centinaia.
I lavori iniziarono alla fine del 1896. La prima tappa doveva portare in due anni alla stazione di Eismeer e nei successivi due in cima alla Jungfrau. Questa ferrovia (oggi di 9,34 km) doveva battere tutti i record, soprattutto in altezza, e rappresentare una sorta di consacrazione delle capacità tecniche e imprenditoriali bernesi, ma anche un’attrazione per milioni di turisti di tutto il mondo.
Invece le difficoltà incontrate furono più grandi di quelle immaginate, i tempi si allungarono notevolmente, le spese raddoppiarono e per mancanza dei finanziamenti necessari si dovette rinunciare all’ultima tappa arrestando i binari alla stazione dello Jungfraujoch. Ciononostante, quello che inizialmente poteva apparire un sogno, divenne realtà e ogni anno la ferrovia della Jungfrau viene utilizzata mediamente da oltre 700.000 persone (765.000 nel 2011). E l’aspirazione di raggiungere comodamente in treno il Top of Europe a 3454 m s.l.m è in crescita.
Il lavoro degli italiani tra molti pericoli e disagi
La caduta dell’ultimo diaframma della galleria, il 21 febbraio 1912 alle ore 5.35, provocò un’immensa gioia tra i quaranta minatori italiani di turno che poco prima avevano preparato l’esplosione con una quantità inusuale di dinamite. Fra l’altro, volevano essere certi d’intascare il premio speciale in denaro previsto per la squadra (ognuna di circa quaranta operai) che per prima avesse sforato la parete che li separava dalla visione di quel panorama straordinario sul più grande ghiacciaio d’Europa, l’Aletsch, e sulle montagne circostanti. Essi non videro subito quel panorama, perché da quell’apertura di poco più di un metro di diametro arrivò loro addosso una ventata gelida. Raccontano però le cronache che fu per tutti loro una grande soddisfazione e tutti si abbracciarono. La stampa, sul posto già da alcuni giorni in attesa dell’evento, raccontò al mondo intero il prodigio che si era realizzato. Si parlò di «una delle nove meraviglie del mondo».
Tra gli invitati per festeggiare sul posto l’evento della caduta dell’ultima parete di roccia c’era anche il pastore evangelico Niklaus Bolt, che racconterà in un romanzo per ragazzi la storia della costruzione di questa ferrovia speciale. Quel romanzo del 1913, intitolato «Svizzero» anche nell’edizione originale tedesca, racconta la storia di uno dei pochi svizzeri che lavorarono in galleria insieme agli italiani e mette in evidenza le difficoltà di quell’opera. Il protagonista è un ragazzo di nome Christen Abplanalp, che gli italiani chiamavano semplicemente «Svizzero». Prima di cominciare a lavorare, un collega svizzero aveva cercato invano di dissuaderlo: «Senti, ragazzo, sei quassù fra neve e ghiaccio, è terribilmente pericoloso: non vedi quanti sono già caduti ed hanno braccia o la testa fasciate? Ci devono essere uomini che si sacrificano e mettono a repentaglio la loro vita per compiere un’opera così grandiosa, ma gli italiani sono più abituati di noi». Il ragazzo, nel racconto di Bolt, replicò: «Sono più abituati a morire? Rimango proprio, non posso cedere».
Certo i minatori italiani erano relativamente ben pagati, soprattutto verso la fine dei lavori e ciascuno di essi poteva inviare in Italia ogni anno oltre 20.000 franchi su un salario di circa 26.000. La ditta metteva a disposizione quasi tutto, ma il lavoro era duro e pericoloso. Date le temperature costantemente sotto zero, spesso la dinamite gelava e non si poteva manipolare senza pericolo. Dopo ogni esplosione l’aria diventava irrespirabile. Molti svenivano perché la ventilazione era spesso insufficiente. Come ricordava un giornale dell’epoca, «I 200 operai italiani addetti a tale lavoro hanno vissuto [gli ultimi] quattro anni a 3400 metri di altezza in mezzo alle nevi eterne, a temperatura polare, collegati col mondo solo da un telefono e dal cavo che trasportava fin lassù l’energia necessaria all’illuminazione, al riscaldamento, alle perforatrici, alle cucine, ecc.».
Durante i sedici anni dei lavori ci furono molti incidenti che fecero quasi un centinaio di feriti gravi e una trentina di morti, tutti italiani con una sola eccezione.
«Senza gli italiani nessun tunnel»
Nella prefazione all’edizione italiana dell’opera di Bolt si accenna a una visita del vescovo Bonomelli agli operai del cantiere, nel corso della quale avrebbe detto: «Senza il vostro possente aiuto quest’opera gigantesca non potrebbe compiersi». Durante la piccola festa organizzata sul posto dalla direzione dei lavori per celebrare la caduta dell’ultimo diaframma di roccia della galleria, alla presenza di eminenti personalità del mondo ferroviario, toccò a un membro della direzione della Jungfraubahngesellschaft rivolgere i ringraziamenti a tutti partecipanti alla memorabile impresa «e non da ultimo ai capisquadra e ai lavoratori, i figli del Sud abituati al lavoro duro, perché senza di essi non ci sarebbe alcun tunnel».
Giovanni Longu
Berna, 02.3.2012

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