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CEFALONIA SECONDO FILIPPINI

Tutti i libri con argomento 'Cefalonia' sono per lo più recensiti da soggetti che dell'aspetto MILITARE dei fatti non sanno e quindi non capiscono niente. Lo si deduce dalla sicumera con cui molti giornalisti scrivono di essi atteggiandosi ad 'esperti' in una materia su cui anche alcune gentili 'signore' straparlano di 'referendum' dei Militari confortate -nel sostenere tale sciocchezza – da alcuni 'partners' cui interessa solo 'ideologizzare' la vicenda trasformando in PARTIGIANI auto decidenti il proprio destino, i SOLDATI della 'Acqui' al cui Comandante gen. Gandin il governo 'Badoglio' invio un ORDINE DI RESISTERE infame perchè impartito senza una previa DICHIARAZIONE DI GUERRA ALLA GERMANIA cui nolente o volente dovette obbedire.
Per questo sono orgoglioso che la recensione sotto riportata del mio ultimo libro “I CADUTI DI CEFALONIA: FINE DI UN MITO” Ibn ed. Roma 2006 (prego controllare la data), il cui contenuto -specie sul numero delle Vittime- è stato ripreso e condiviso in recenti pubblicazioni, sia stata opera di un autentico esperto della problematica MILITARE in tutti i suoi aspetti: il gen. Luigi Caligaris cui va il mio sentito ringraziamento.

Massimo Filippini

26 febbraio 2012

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E’ uscito in giugno con la casa editrice Ibn il libro di Massimo Filippini “I caduti di Cefalonia: fine di un mito”. Questo libro, il terzo dello stesso autore su quel soggetto, tratta dei fatti occorsi nel settembre 1943 alla divisione Acqui in quella bella isola greca, entrata in tal modo a far parte della storia militare italiana. Sono fatti su cui da 60 anni si polemizza e discute, si indicono commemorazioni commosse; sui fatti chi vuole saperne di più trova puntigliosi riscontri sulle enciclopedie, di cui da tempo si tratta su molti mass media e che sono stati oggetto di due recenti film: uno straniero (Il mandolino del capitano Corelli) e l’altro italiano (Cefalonia, proiettato dalla nostra tv di Stato).

Con tale dovizia di informazioni, con un attenzione incessante, inusuale per un Paese come il nostro dove ogni argomento cattura l’interesse per attimi, perché mai occuparsi dell’ennesimo libro su eventi che si avrebbe ragione di considerare accertati oltre ogni ragionevole dubbio? Ebbene, di motivi ve ne sono almeno due.

In primo luogo, la ricostruzione ufficiale dei fatti su cui si fonda il mito Cefalonia è contestata con ricchezza di dati di alcuni – fra cui Filippini – e ciò da solo giustifica una legittima curiosità. Inoltre, la lettura del libro fa emergere il dubbio che l’edificazione del mito sia dovuta non solo al desiderio – apprezzabile – di valorizzare la figura del militare in un contesto tragico quale quello del 8 settembre 1943, ma anche al tentativo – opinabile – di avvalorare la tesi del sacrificio di massa in omaggio al cliché in voga in Italia del soldato buono, che alla resa dei conti si converte in eroe martire e remissivo in contrapposizione all’impopolare eroe combattente.

Quei due motivi da soli più che giustificano la recensione del libro, impresa non facile per il suo alto contenuto polemico, per il suo tono spigoloso e per l’implicito invito dell’autore ad associarsi al suo scontro diretto con coloro che hanno contribuito a promuovere i fatti di Cefalonia a epopea nazionale. Non farsi coinvolgere non sarà facile, non solo perché si tratta di un tema tragico e assai controverso, ma anche perché il suo autore è profondamente coinvolto egli stesso. Ex ufficiale, orfano di un ufficiale di carriera caduto a Cefalonia, Massimo Filippini ha dedicato tutta una vita al tentativo di fare chiarezza su fatti che ritiene siano stati ad arte manipolati.

In questa sua ultima opera che, come indica il titolo, dovrebbe contribuire alla fine dell’esaltazione eroica di Cefalonia, l’autore si rivolge a due aspetti che sono stati fra i pilastri portanti della costruzione del mito. Il primo è il numero che pare davvero eccessivo di soldati italiani passati per le armi dai tedeschi in un eccidio perpetrato da forze regolari contro altre forze regolari. Il numero sarebbe stato ingigantito “forse per accrescere in una opinione pubblica all’oscuro dei fatti non tanto la pietà per i poveri morti quanto il risentimento, in chiave soprattutto ideologica, verso il nemico nazista”.

Quali che siano le cause della disinformazione, non si può non convenire che non si tratta di un esempio isolato e che in Italia permangono fitte zone d’ombra attorno a quel tragico 8 settembre, di cui Cefalonia è uno dei tanti tristi episodi, che ha esposto spietatamente le carenze delle nostre istituzioni e la fragilità della stessa nazione. La politica del dopoguerra, offrendo al Paese una sua versione dei fatti che attribuiva alla Resistenza ogni merito per il riscatto del Paese minimizzando il ruolo dei militari, ha fatto sì che qualsiasi evento di quegli ultimi anni di guerra fosse desideroso di celebrazione nazionale dovesse essere interpretato in chiave resistenziale.

Tuttavia, se ciò ha contribuito all’iniziale edificazione del mito, la persistenza del fenomeno la si deve anche alla sua sintonia con la visione ormai consolidata delle cose militari. Gli ingredienti della cultura militare attuale ci sono tutti: lo scarso credito dato alle strutture militari; la pochezza dei comandanti; la dissidenza di pochi esaltata come eroica perchè in rima resistenziale; il plauso per un presunto referendum inteso a decidere se deporre le armi o resistere e offerto quale prova di democrazia; la resa senza colpo ferire e l’altrettanto rassegnata accettazione dell’eccidio.

Per sottoporre la versione ufficiale-ufficiosa – ma comunque generalizzata – dei fatti a una diagnosi che si riveli attendibile, Filippini si avvale di documenti ufficiali e di testimonianze di alcuni superstiti e con pregevole ostinazione si prodiga nel tentativo di smontare l’ipotesi, ormai metabolizzata dalla retorica nazionale, dell’immane “sterminio” le cui cifre si sono attestate su 9-10mila morti per mano tedesca.

In una attenta disamina, egli cerca di stabilire quanti siano stati i caduti in combattimento e quelli passati per le armi dai tedeschi, i soli associabili ai drammatici fatti di Cefalonia, per distinguerli da coloro che, invece, si unirono alla resistenza greca (qualche centinaio), collaborarono con il nemico (oltre 1.200) , rientrarono in patria con odissee personali e di gruppo, furono internati in campi di concentramento in varie parti d’Europa, anche in Russia, e perirono in mare (1.300) per l’affondamento delle navi che li trasferivano altrove.

Alla fine della rassegna, da cui si esce frastornati dalla ridda di numeri assai distanti fra loro esibiti da vari esperti a sostegno delle rispettive ipotesi sul massacro di Cefalonia e dopo che l’autore ha premesso che “un bilancio definitivo preciso all’unità è impossibile”, Filippini propone su un totale di 12.000 militari della divisione Acqui presenti sull’isola , un numero di 1.647 caduti per mano tedesca di cui 1.290 in combattimento e 355 per fucilazione, per la maggior parte ufficiali fra cui suo padre. Tale ultima cifra, seppure non sminuisca le orrende responsabilità dei tedeschi, è meno del cinque per cento rispetto ad alcune fra le ipotesi in circolazione.

Un altro aspetto su cui Filippini si sofferma è la responsabilità delle autorità politiche e militari. A prescindere da quelle ovvie delle alte gerarchie nazionali e su territorio greco, merita attenzione la sua valutazione positiva dell’operato del comandante della divisione Acqui, generale Gandin, sottoposto invece dalla vulgata nazionale a gravissime critiche che Filippini, controcorrente, rovescia su alcuni gruppi di sediziosi che ne avrebbero minato l’autorità.

La descrizione, sia pure succinta, di queste deviazioni è fra le parti più inquietanti del libro e resta fra le pagine bianche dei fatti su Cefalonia. Che poi i suoi protagonisti abbiano rivendicato e ottenuto medaglie al valore militare e siano stati reintegrati nella carriera per una bizzarra rivalutazione in chiave resistenziale del loro operato, sa di grottesco. A ciò si aggiunge che oltre mille militari, scampati al massacro e poi divenuti “collaborazionisti a pieno titolo dei tedeschi” furono celebrati come eroi partigiani al loro rientro in Patria e celebrati come tali anche in seguito. Come esempio di travestitismo e come conforme connivenza delle istituzioni, un episodio encomiabile. Si fa, naturalmente, per dire.

A latere, vi è anche accenno a stravaganti valutazioni delle commissioni d’inchiesta e persino a iniziative giudiziarie tendenti a incriminare il capo e il sottocapo di stato maggiore dell’Esercito per avere dato l’ordine al generale Gandin di opporsi con le armi ai tedeschi. Ne si desume che, secondo loro, avrebbero dovuto ignorare gli ordini avuti e accettare l’invito alla resa come scelta giuridicamente ineccepibile. Chi si meraviglia oggi per l’avvio di inchieste da parte della magistratura sull’operato di comandanti durante uno scontro a fuoco vi trova un precedente inquietante.

Giunto al termine di questa mia confusa recensione, in cui ho trovato non poche difficoltà a raccapezzarmi, consiglio la lettura del libro, che è indubbiamente interessante e si dimostra di preoccupante attualità quale esempio di insabbiamento del caso o di ricostruzione ad arte dei fatti. Tutti vittime, nessuno colpevole, in una fuga dalle proprie responsabilità che torna comoda a chi ha sbagliato ma che offende la memoria di chi per i suoi errori ha sofferto e magari anche perso la vita.

Vi è chi auspica che la verità 'ufficiale' su Cefalonia trionfi e che storici come Filippini cessino di contestarla al solo fine di non rimettere tutto in discussione. Se così avessero ragionato gli Stati Uniti, non sarebbero mai emerse le colpe politiche e militari del conflitto in Vietnam. Se la ricerca della verità è indubbiamente traumatica, è anche vero che la persistenza del dubbio che sia stata manipolata induce a debilitante e demotivante sfiducia.

Non resta quindi che tirare le somme della intera questione, liberandola della vis polemica, chiarendo il ruolo giocato dai protagonisti, facendo chiarezza sui fatti con auspicabile obiettività. Sono passati 60 anni da allora. E’ ora che la storia con la S maiuscola restituisca dignità al triste evento, sottraendolo alle speculazioni e ai conformismi di parte. Sostiene Shakespeare: “La gloria del Tempo è di calmare i contendenti, smascherare le falsità, portare alla luce la verità”. Come proposito non è affatto male.

Gen. Luigi Caligaris

26 ottobre 2006

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