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INTERVISTA A LUIGI GUZZO (FUCI, MAGNA GRAECIA DI CATANZARO)

1-Comincerei dal chiederti una breve riflessione sull’associazione cui appartieni, la Fuci. La Fuci, nel bene e nel male, dalla crisi del 1931 fino al grande laboratorio di idee e culture degli anni Cinquanta e Sessanta, passando sino ad oggi anche per i suoi periodi di crisi, è legata a filo doppio alla crescita di questo Paese, alla sua formazione, alla sua stessa identità. Che cosa ne pensi?

Il mio impegno nella Fuci comincia con l’inizio dei miei studi universitari. E mi sento “fortunato”. Ho fin da subito potuto dare alle mie fatiche intellettuali un valore per me “alto”, in quanto accompagnate da un serio cammino spirituale.
La Fuci a Catanzaro io con altri amici ce la siamo un po’ “inventata”. Anche se la Federazione in diocesi è operante dal lontano 1942, negli ultimi tempi stava vivendo un periodo di stagno. E così abbiamo deciso di riaprire nella città un circolo fucino. Non senza le difficoltà di chi nella Fuci continua a vedere ancora una sorta di trampolino di lancio per “fare carriera”.
E’ vero quando tu dici che la Fuci è strettamente legata alla storia civile e sociale del nostro paese. La Fuci nasce nel 1896. In quegli anni ai cattolici è proibito l’impegno politico: il famoso non expedit. Ma non per questo si resta con le mani in mano. E, attraverso l’associazionismo, i laici cattolici concorrono allo sviluppo del nostro Paese. Nel fascismo poi i circoli fucini rimangono alcuni dei pochi ambiti nei quali si può discutere al di fuori di una visione della vita militarizzata e totalitaristica propria del periodo mussoliniano, si pensi all’operato dell’allora assistente ecclesiastico Montini, futuro Paolo VI. Poi arriva la Costituzione che è il frutto anche di un forte impegno fucino: molti padri costituenti provengono dall’esperienza della Fuci. Dall’inizio della vita democratica ad oggi la Fuci non ha perso la linfa vitale che la contraddistingue: il suo essere libera, fuori dagli schemi, e giovane, perché giovani sono gli universitari che vi fanno parte. La Fuci cammina sull’onda del Concilio Vaticano II, un grande evento di grazia per le sorti della nostra comunità ecclesiale. Ho una sola grande paura: che la nostra associazione, come purtroppo sta succedendo in gran parte del mondo cattolico, perdi di vista la bussola di una Chiesa che deve essere autenticamente evangelica.
Ho una predilezione io per il Vangelo e per la novità sconvolgente che suscita. La Parola deve plasmare la nostra vita e la vita di chi ci sta accanto. Se sono nella Fuci è perché ho deciso di lasciarmi afferrare dalla Parola. E di trovare le ragioni una fede che non può, e non deve, fermarsi alle quattro nozioni mnemoniche imparate al catechismo (si badi bene, io oggi sono catechista, sic!). Ma deve andare oltre: ed intessersi con il vissuto quotidiano.
Non vorrei mai che i miei figli, un domani, mi rimproverassero quello che io, oggi, rimprovero alla generazione dei miei genitori: l’aver tradito nell’agire sociale il messaggio “nuovo” di Cristo. La Fuci deve essere sempre più profezia di una società penultima, come quella del Giovanni il Battista che preparava le strade per il Regno di Dio. Senza piegarsi alle logiche di un mondo falso e corrotto. La Fuci oggi deve essere laboratorio serio di idee e di opinioni, deve riappropriarsi del suo ethos culturale, senza diventare però un’associazione di pochi privilegiati. E quindi è necessario aprirsi agli altri, confrontarsi con il diverso e trovare le ragioni di uno stare insieme serio, dinamico e costruttivo. Alcuni ci dicono che noi della Fuci siamo “Chiesa nell’università”. E’ un’espressione bella, ma per chi non è “dei nostri” può apparire un po’ troppo “clericale”. E noi oggi come comunità cristiana paghiamo lo scotto di aver troppo spesso alzato steccati inutili per rifugiarsi in certezze evanescenti. Ma la fede non ha certezze. La fede –almeno per me- è ogni giorno ritrovare i motivi di uno stare su questa terra. I fucini sono chiamati a portare la loro testimonianza vivendo, in primis, la vita universitaria con trasparenza e con lealtà. Così da predicare sui tetti la Parola che li ha trascinati in un avventuroso ed unico viaggio!

2-Paradossalmente, in questo periodo di grave stagnazione etica ed economica, si sono moltiplicati gli studi e gli scritti su tematiche come la cooperazione, la sussidiarietà, la riscoperta dell’Umanesimo cristiano. Ti convince questo filone? Senza voler generalizzare, temo che celi almeno in parte una specie di propensione “buonista”, per cui tutti si dichiarano d’accordo su tavole, non meglio precisate, di grandi valori, ma poi, nel concreto dell’agire quotidiano e del divenire storico, ciascuno fa come meglio crede, se non addirittura l’opposto.

Molti oggi si stanno facendo carico dell’elaborazione di un nuovo umanesimo per il terzo millennio. In questa “riscoperta”, come la chiami tu, i temi della sussidiarietà, della cooperazione, della solidarietà ovviamente si moltiplicano. E’ un filone che mi convince perché indica, almeno, una certa sensibilità in materia. Neanche il sapere è immune dal mercato: se si “producono” scritti è perché qualcuno li legge. C’è un interesse insomma. Ma il pericolo di parole “vuote” rimane. Spesso siamo abituati a parole vuote e sterili che non seguono fatti concreti. Parliamo di accoglienza ma non siamo in grado neanche di offrire un pasto caldo ai senza tetto che incontriamo per strada. La nostra è una società sempre più individualistica che lascia poco spazio all’aspetto comunitario. Siamo sempre più “buonisti” ma sempre meno “buoni”. Per uscire dagli stereotipi di cui siamo vittime è importante accettare la povertà che incontriamo tra le nostre strade. E’ un mondo povero il nostro. Che ha bisogno davvero di riscoprire la centralità dell’uomo. E di comprendere che la vera ricchezza sta nella condivisione, nella fraternità, nella gioia e nella pace. Ho a memoria imparato una piccola preghiera che tempo addietro ho letto in un sussidio per l’avvento: “Signore, aiutami ad ascoltare i più piccoli, dammi un cuore libero, capace di sognare”. Che senso ha definirsi cristiani se non porgiamo la mano a chi ce la chiede?

3-Nel tuo curriculum, c’è già una densa attività giornalistica e una enorme schiettezza nell’approcciarti ai dilemmi del precariato giovanile (e non solo). Molti si scagliano contro il perdurante dominio dei “vecchi”; ma un po’ ovunque, dai consigli comunali sino alle grandi testate, si vedono giovani, tutto sommato in buon numero, che sognano di riuscire ad emulare pedissequamente le vecchie prassi, le vecchie scorciatoie, le vecchie clientele. Forse non serve una battaglia per il ruolo dei giovani. Servirebbe ripulire le nostre generazioni dal pulviscolo tossico dei mille affarismi particolari…

Infatti ho più volte scritto sul quotidiano a cui collaboro che il problema di oggi non è tanto quello di avere giovani impegnati in politica (che ci sono!), ma piuttosto quello di trovare giovani che non siano intrisi delle stesse idee clientelari dei grandi. Hai ragione quando dici che servirebbe una “ripulita”. Le nostre generazioni, la mia e la tua, vivono l’assurdo paradosso di presentarsi spesso come “il nuovo che avanza …”, ma di non essere per niente “nuovi” nei loro modi di agire e di comportarsi. Spesso questi giovani provengono dalla scuola della vecchia, ed ancora in auge, politica, quella del malaffare e del clientelismo! Chi va con lo zoppo impara a zoppicare … Un rapporto quasi di “vassallaggio” lega questi giovani ai loro padrini politici. E guai distaccarsi. Così purtroppo non andremo da nessuna parte …
Voglio essere propositivo: il “tizzone ardente” della rivoluzione io oggi lo passerei a quei giovani che si impegnano senza aspettarsi uno scranno parlamentare, nel sociale. Consentimi di sognare: sono loro il futuro della nostra terra!

4-Un’altra cosa che non mi piace e credo che abbia molto a che fare con le tante piaghe della condizione giovanile: come si affronta la microcriminalità. A nessuno piacciono i più o meno efferati reati contro il patrimonio, le piazzette presidiate dalle sentinelle dello spaccio, i taglieggiamenti di cui sempre più ci parlano le cronache. Ma la risposta organica che si prova a tirar fuori è sempre securitaria, sempre impaurita, molto attenta a reprimere le piccole fuoriuscite dai grandi fenomeni criminali, ma non, compiutamente e fino in fondo, i vertici e le strutture di quelle organizzazioni. Vorremmo poter dire, invece, che non abbiamo paura degli extra-comunitari, dei girovaghi, degli abusivi… ma che vogliamo combattere gli sfruttatori, i riciclatori, gli imbonitori.

Stiamo creando una società “del sospetto”. Abbiamo paura dell’altro semplicemente perché diverso da noi. E’ il frutto di politiche sempre più xenofobe. Vogliamo difendere a denti stretti il nostro orticello, le nostre tradizioni, i nostri costumi la nostra religiosità, ma non ci rendiamo conto che così facendo stiamo creando una società sempre meno accogliente. Dobbiamo ripartire sicuramente dalla fiducia dell’altro: anche io sono l’altro di cui aver rispetto!
E poi anche ai nostri amministratori è necessario con forza chiedere politiche di risanamento sociale. A Catanzaro –faccio l’esempio della mia città- c’è il problema dei rom. La loro ghettizzata condizione nella società li porta spesso a compiere atti delinquenziali di micro criminalità che sono sicuramente da condannare. Nessun amministratore però hai mai deciso di affrontare seriamente il problema. Di loro se ne parla solo in momenti particolari come nelle campagne elettorali. Questa gente finisce per essere ricettacolo di voti di scambio che puzzano d’illegalità. Nient’altro. Promesse su promesse. Ed una sola grande verità: in quei campi rom i giovani, nonostante la scuola dell’obbligo, non sanno né leggere né scrivere. Che futuro mai potranno avere?!

5-Mi piacerebbe chiudere con una domanda che riguarda la tua passione per le storie ecclesiali e il tuo impegno, anche editoriale, su tali tematiche. Vorrei chiederti un parere sulla riscoperta di un genere letterario come l’agiografia. A volte sembra si sia chiusa l’epoca tanto delle belle ricerche aneddotiche quanto dello sforzo per ricavare una morale dall’exemplum. Molte agiografie finiscono per sembrare, soprattutto al singolo fedele, all’uomo che si interroga con se stesso, al più delle rassegne per incentivare qualche culto zonale. Condividi il mio pessimismo sul genere, o esistono dei margini di “de-commercializzazione” dello stesso?

Ti ringrazio della domanda. E’ vero: sono un appassionato di storie di santi. San Filippo Neri consigliava a chi frequentava il suo oratorio di leggere libri che iniziassero con la “S” (San Francesco, Sant’Antonio, San Pietro …).
Ai miei ragazzini del catechismo dico sempre che i santi ci avvicinano il Paradiso, ci offrono la ricetta e noi non dobbiamo fare altro che comportarci come loro si sono comportati.
I santi ci aiutano ad uscire dal quotidiano. Ci interrogano sulla nostra vita. E, come tu hai accennato, ci danno un esempio da seguire. Un esempio, si badi bene, che parla a credenti ed a non credenti.
E’ per questo che mi diletto a leggere e, qualche volta, a scrivere le vite dei santi. Capisco il tuo pessimismo. E’ bene incentivare il culto zonale. Ma molte agiografie, quando non sono celebrativi scritti che sfiorano il surreale, sono redatte con il solo scopo di mettere insieme qualche notizia e qualche foto. Non parlano della santità, non offrono alcun modello.
Sono un’accozzaglia di dati, di testimonianze, di foto buttate là, soltanto forse per raccogliere qualche offerta.
L’agiografia, quella vera, deve essere ordinata, limpida, chiara. Deve essere sobria e stringata. Deve parlare e far parlare della santità. La deve, quasi, far acciuffare con mano!
Ed in più: non deve scadere nella celebrazione fine a se stessa! I santi, nei loro pregi e nei loro difetti, sono persone come noi.
E’ da un po’ di tempo che mi sto dedicando alla figura di Antonio Lombardi (1898-1950), filosofo catanzarese di cui da qualche anno si è aperto il processo per la canonizzazione. Quando scrivo di lui cerco di attualizzare la sua figura, di renderla presente, di non lasciarla immortalata nella prima metà del Novecento. Se i santi non parlano all’uomo di oggi che senso ha scrivere di loro?

Domenico Bilotti

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