Erano arrivati nel 2009, i giovani palestinesi che suonavano le cornamuse Guirab: ” Fuori dal campo -Tour Italia I musicisti palestinesi di cornamuse nelle città italiane dal campo profughi di Burj al Shemali (Tyro, sud Libano) presentato dalla onlus Ulaia ArteSud.” Quando ho ritrovato le immagini e li ho sentiti suonare, forse neanche una ventina, giovanissimi, con la bandiera avanti della Palestina che camminavano in un paese qualunque dell’Italia, mi si sono riempiti gli occhi di lacrime.
Ho letto nella posta stamattina, una comunicazione della 4ARTS Newsletter, I musicisti palestinesi di Guirab: visti negati perchè la Palestina non è uno stato . ” Il 21 luglio scorso – dopo i chiarimenti che avevamo chiesto – l’Ambasciata d’Italia a Beirut chiamò la nostra redazione per spiegare i motivi che avevano indotto il consolato italiano a non rilasciare i visti necessari per far giungere in Italia questa estate i giovani musicisti palestinesi dell’orchestra di cornamuse Guirab. Le motivazioni ufficiali della nostra fonte accreditata presso la rappresentanza italiana in Libano furono le “scarse e insufficienti credenziali consegnate alle autorità italiane da parte della ONG palestinese NISCVT Beit Atfal Assomoud”. Come già annunciato precedentemente, uno degli organizzatori Olga Ambrosanio di Ulaia di ArteSUd Onlus, si è recata questa estate insieme a Henry Brown, direttore dell’Associazione Prima Materia, presso l’Ambasciata italiana di Beirut per comprendere le motivazioni reali che hanno portato il consolato a questa scelta. Accolti con cortesia dal Consigliere Andreas Ferrarese, dal Primo Segretario e dalla responsabile dell’Ufficio Visti, dopo l’elencazione della documentazione prevista dalla prassi, è finalmente arrivato il motivo vero del rifiuto: “… purtroppo i palestinesi non hanno un Paese”. Detto in altri termini, non esiste una procedura per gli espatri supportata da una normativa precisa, né può assurgere a regola la documentazione giudicata idonea in precedenti richieste. Nel corso dell’incontro i funzionari dell’Ambasciata hanno suggerito la produzione di una documentazione al fine di facilitare future richieste, nello specifico: istruzione di un fascicolo sull’associazione locale (nel nostro caso la Beit Atfal Assomoud) che acquisisca anche eventuali referenze di Istituzioni o persone di cui sia nota la credibilità e che siano in rapporti con la stessa; collaborazione da parte dell’associazione locale nell’istruzione di un fascicolo personale di ciascun ragazzo invitato in cui sia dichiarata la propria situazione in modo veritiero (presenza di parenti in area Schengen, mezzi di sussistenza nei campi, ecc.); per i minori tale fascicolo deve essere accompagnato dalla dichiarazione di disponibilità dei genitori. Ciò nonostante, Olga Amrbosanio non ha potuto fare a meno di “notare sia la mancata comunicazione verso le Associazioni italiane richiedenti (Servizio Civile Internazionale ed ULAIA ArteSud onlus), sia le incomprensioni tra la nostra Ambasciata e l’Associazione locale Beit Atfal Assomoud con la quale, di prassi, vengono intrattenuti i contatti successivi”. “Circa l’istruzione del dossier sui singoli nominativi”, prosegue la Ambrosanio, “per valutare i rischi di permanenza in area Schengen, ci riesce davvero difficile immaginare gli aspetti delle situazioni personali dei ragazzi palestinesi che potrebbero dare sufficienti garanzie al loro ritorno. Crediamo, invece, che in questi casi la dirittura morale di cui gode una persona o un gruppo debba essere condizione idonea a garantire l’inesistenza di un rischio simile”. Prima di rientrare in Italia, la delegazione italiana ha fatto visita ai funzionari UNRWA dell’area Sur e della sede centrale di Beirut, ricevendo una considerazione positiva verso l’operato della Beit Atfal Assomoud e dei suoi responsabili nei campi. Il lavoro che svolge Assomoud nel settore dell’assistenza, dell’istruzione e della salute è considerato di ausilio e supporto ai compiti istituzionali dell’UNRWA e di conseguenza è molto apprezzato. Incontro positivo anche con gli ufficiali di UNIFIL, la forza di pace presente in Libano. Ottimismo da parte di Ulaia onlus considerando la sollecitudine con la quale è stata accolta la loro richiesta di incontro rivolta al personale dell’Ambasciata. Sarà determinante una loro presenza fisica, sul posto, durante tutto l’iter di istruzione della pratica per il prossimo arrivo dell’orchestra Guirab in Italia.”
Così era che il 22 luglio Scorribanda chiama Guirab.
Scrivevano, proponevano dicevano che : “Il progetto vuole creare un’occasione di incontro e di scambio tra un gruppo di giovani suonatori di cornamuse palestinesi provenienti dal Libano “Sumoud Guirab” e la banda di strada toscana “Scorribanda”. L’iniziativa prevede l’ospitalità in famiglie da parte del gruppo italiano e momenti di condivisione di musiche, danze tradizionali, costumi e convivialità.
Un momento per discutere del valore dello scambio culturale. Partecipa anche ‘Prima Materia’ di Montespertoli
Scriveva viceversa, sulla fine di settembre, Stefania Limiti: UN PEZZO DI PALESTINA E’ IN LIBANO “… I profughi in Libano vivono in condizioni davvero estreme ma non rinunciano alla loro dignità e alla loro storia: nei campi accolgono le delegazioni con le musiche tradizionali cantate da ragazze e ragazzi in abiti tradizionali, allevano i loro figli cercando di preservarli dall’angoscia che nasce quando non c’è futuro, e di strapparli alla rapacità di alcuni gruppi di terroristi radicali, un fenomeno controllato ma non certo inesistente. E pensano alla loro Palestina le giovani educatrici che organizzano i corsi anti-violenza per bambini e donne del campo di El Buss, nel sud del Libano, i medici e gli insegnanti che si prendono cura della gente in ogni misero campo o gli attivisti dalla Ong Beit Atfal Assoumud (partner del Comitato per non dimenticare Sabra e Chatila nel viaggio), un poderoso, laico argine, insieme al suo leader, Kassem Aina, al lavoro dei gruppi estremisti fondamentalisti.
In questi giorni, alla vigilia del dibattito sulla risoluzione presentata dall’Autorità palestinese che chiede di essere riconosciuta come Stato, colpisce la violenza di alcuni commentatori ospitati dai maggiori quotidiani italiani i quali hanno spesso un argomento su cui poggiare la loro invettiva contro l’esistenza di uno Stato palestinese – pur sapendo che non c’è più terra disponibile per realizzarlo, se Israele non si ritira dai propri insediamenti: tirano fuori un mito creato a tavolino, insieme ad una massiccia offensiva mediatica contro il presidente Yasser Arafat, indicato come il responsabile del fallimento del negoziato e del rifiuto delle di Ehud Barak. Un’interessata bugia per nascondere il nodo del conflitto: il fatto che Israele non intende affatto tornare ai confini del 1967 e restituire ai palestinesi quel misero 23% costituito dai territori occupati. Piuttosto vuole annettersi circa la metà della Cisgiordania e concentrare gli abitanti arabi in bantustan, attorno ai centri abitati e ai villaggi, separati gli uni dagli altri e circondati dalle truppe israeliane. In altri termini Tel Aviv punta all’annessione del «massimo di territorio con il minimo di arabi». Robert Malley, membro del team Usa a Camp David, oltre alle critiche di noti commentatori israeliani come Meron Benvenisti e Uri Avnery, sostenne in quei giorni di attivismo del presidente Clinton che Yasser Arafat aveva più volte messo in guardia Bill Clinton sui pericoli di un vertice convocato senza un’adeguata preparazione soprattutto dopo che il premier israeliano Ehud Barak si era rifiutato di attuare una serie di precedenti accordi firmati tre mesi prima con l’Autorità palestinese, come il terzo ritiro parziale dalla West Bank, il trasferimento all’Anp di tre villaggi vicini a Gerusalemme est e la liberazione di 1500 prigionieri palestinesi. Il presidente Clinton riuscì infine a convincere Arafat ad andare a Camp David, dove non vi fu alcuna proposta scritta da parte di Ehud Barak dal momento che le presunte offerte furono presentate come vaghe «idee dei mediatori Usa», promettendogli, inutilmente, che, se il summit fosse fallito nessuna delle parti in causa, a cominciare dagli Usa, avrebbe potuto gettarne la responsabilità sulle altre. A dieci anni dal quel falso negoziato, siamo ancora alle prese con una grande illusione: quella della volontà di Israele, paese che occupa militarmente terre di altri, di costruire la pace.”
Oggi 4 ottobre 2011, le ultime notizie: Un atto “grave”, sintomo di “fermenti preoccupanti”. Così il ministro degli Esteri commenta l’incendio appiccato a una moschea della Galilea, in Israele. Sul conflitto tra israeliani e palestinesi, Frattini ha spiegato: “Non vogliamo né vincitori né vinti”, l’Italia “è il miglior amico di Israele in Europa”, ma “è convinta che lo Stato palestinese debba essere una realtà”. Parlando a un convegno sul Medioriente, ha poi definito “improvvido” l’annuncio israeliano di mille nuove case a Gilo…
Su Peacereporter: “Una moschea del villaggio di Tuba-Zangaria, a nord del lago di Tiberiade, in Galilea, è stata incendiata stamani all’alba. Secondo fonti locali l’edificio ha subito ingenti danni materiali, ma nessuno è rimasto ferito nel rogo. Gli abitanti accorsi sul luogo hanno trovato tracciati sulle pareti slogan nazionalistici ebraici fra cui: ‘Il prezzo da pagare è ‘Palmer’, riferimento al rabbino Asher Palmer, un colono morto dieci giorni fa con il figlio piccolo nel ribaltamento della loro automobile a Hebron (Cisgiordania) dopo che – secondo la polizia – il parabrezza era stato sfondato da una pietra scagliata da un automezzo palestinese. Tutti gli edifici pubblici di Tuba-Zangaria sono stati chiusi in segno di protesta. Gruppi di giovani hanno anche bloccato alcune strade con pneumatici in fiamme. Messaggi di esecrazione sono subito giunti dal Movimento islamico in Israele secondo cui l’attacco alla moschea “rientra nel contesto di un crescente razzismo anti-arabo nella popolazione ebraica”. L’episodio è stato subito condannato dal premier israeliano Benyamin Netanyahu, secondo cui si tratta di un “crimine sconvolgente”. L’attacco alla moschea, afferma Netanyahu in un comunicato, “contrasta con i valori dello Stato di Israele: la libertà religiosa e la libertà di culto sono per noi valori supremi”. Netanyahu ha ordinato allo Shin Bet, il servizio di sicurezza interno, di cercare di catturare al più presto i responsabili dell’attacco. Episodio analogo si era verificato esattamente un mese fa a Nablus.”
E allora Long Live Palestine , cantata da Lowkey , che è anche Kareem Dennis.
Rimane un Progetto d’Amore, come per certi la distruzione di intere generazioni. Riporto quanto scrive un amico su Facebook, Carmelo Albanese: “Rimane solo un alternativa. Lottare con tutto l’amore possibile.”
Doriana Goracci