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LA VERITA DIETRO GLI APPELLI SULLA CRISI E SULLA CRESCITA

Negli ultimi mesi, abbiamo assistito quasi quotidianamente a lunghe dissertazioni e a improbabili tavolate congiunte, tra i più vari soggetti promotori, sulla crisi e sulle misure necessarie ad uscire da essa. Preliminarmente, si può osservare che invocano soluzioni alcuni degli artefici di questo stato di cose, ivi compresa la Confindustria, che certo guarda con una propria peculiare attenzione alla produttività, ma che ha spesso sposato alcune delle politiche che hanno ridotto il potere d’acquisto e, in definitiva, hanno contribuito alla paralisi del consumo e alla caducazione di una serie di ammortizzatori sociali, diretti e indiretti, che, invece, erano tradizionalmente propri di un’economica medio-forte come quella italiana. Secondariamente, è da notare come nelle varie tavolate quasi mai siano invitate anche solo rappresentanze di alcuni dei soggetti più colpiti dalla crisi: il precariato cognitivo, a volte celebrato come formula a Sinistra, ma in realtà mai così isolato dalle agende della policy, il lavoro irregolare, perlopiù manuale, le famiglie numerose, le fasce anagraficamente più esposte alla mancanza di reddito. Inoltre, terzo punto, queste tavole rotonde hanno lo scopo di celebrare sveglie ultimative (“è il momento di rimboccarsi le maniche”), ma difficilmente vanno oltre le dichiarazioni di intenti e anche su di esse domina una certa vaghezza, per cui in fondo si sa che c’è la crisi, ma non sono indicizzati i provvedimenti concreti che i vari estensori di appelli e promotori di iniziative congiunte hanno davvero a cuore di far adottare. Ciascuno di questi punti ha, poi, una ricaduta fattuale, che contribuisce ad allontanare il momento della decisione sulla politica economica dalla necessità materiale che emerge all’interno della politica economica. Quanto al primo aspetto, parlare per slogan compassati e laboriosi, del tipo “e ora le riforme!”, “giù i costi della politica”, “crescere tutti e crescere insieme”, e così via…, sembra star determinando non tanto paradossalmente un nuovo linguaggio della propaganda politica (da cui l’altrettanto scontata espressione, nella dialettica parlamentare, “confrontiamoci sul merito”). Quanto al secondo punto, la totale mancanza di (anche) semplice audizione dei più colpiti dalla congiuntura economica corrisponde ad un plenum di sigle e siglette, spesso svuotate di vera capacità rappresentativa: si parla “per conto di”, ormai, ma quasi scompare l’ “in nome di”, cioè, i soggetti per cui si agisce, ci si dichiara e si espone la propria fatiscente ricetta. Anche l’osservazione sociale, che viene da questi “meeting”, sembra buttare lo sguardo su una realtà astratta, non meno inafferrabile del “bene del Paese”, e induce un’idea sfalsata delle reali emergenze sociali, che non saranno mai, se non al più “de relato”, grandi progetti, sempre tuonati e mai compiuti, di “riforme istituzionali”. Invocare unità nazionale sulla politica economica è, poi, una duplice fallacia. In primis, perché unità nazionale evoca pagine non sempre trasparenti di politica italiana; in secundis, perché giammai si farà unità nazionale sulle politiche economiche… potranno esser morte le classi, ma ogni forza politica, ogni bacino elettorale davvero ragguardevole, corrisponde a un interesse particolare. Da qui non se ne esce: o si selezionano più interessi particolari, anche disomogenei tra loro, o si discerne chi ha subito da chi ha tratto profitto, chi ha pagato (tasse comprese, magari) da chi non lo ha fatto ed è serenamente intenzionato a continuare a farlo. L’idea di una gerarchia strategica degli interessi, o di una “tattica”, contingente, esula completamente dalle forze materiali e culturali di questa classe politica. In ordine al terzo aspetto, è facile affermare che questo sia il presupposto teorico per cui, in pratica, il Paese è fermo da quindici anni: la politica degli annunci (“basta con l’immobilismo!”) è già una forma di immobilismo. È, quantomeno, la consapevolezza di una deriva, di un abbandonarsi ai venti e speriamo che presto o tardi cambino direzione. Non mi avventurerei in tesi, forse dietrologiche, sullo svuotamento delle sovranità nazionali. Esse, in qualche punto, escono invece rinverdite dalla crisi: se la crisi è emergenza, si accetta che l’autorità faccia qualcosa di critico, emergenziale, “unico”. E, in fondo, l’autorità (che sia monetaria o politica) ambisce a spalmare quell’unico emergenziale su un lungo periodo, come se fosse l’acquisizione di una sua, nuova o rinnovata, prerogativa. Quanto al livello più concreto e finitimo delle scelte economiche, non v’è in aggiunta globalizzazione che tenga: l’avvicinamento della grande situazione finanziaria alle minute istanze particolari è sempre questione dello Stato che lo attua, nel suo contesto (leggi: la sua situazione economica pregressa), con le sue capacità (leggi: la classe dirigente di cui dispone), con le sue forze e prospettive (leggi: le sue possibilità di ripresa e di guadagno).
Semmai, vero è che chi più ha liquidità, tende ad aver maggior forza. Può comprare di più e, tra i beni “immateriali” che può comprare, c’è la capacità di controllare (le economie de)gli altri, come sta facendo la Cina, come continuano a fare, forse assai meno che in passato, gli Stati Uniti.
Diffidiamo dai grandi appelli alla ripresa, insomma: essi non sono un novum ma, molto più modestamente, la cristallizzazione del vecchio in questo specifico istante. Più sconcertante è che tutte queste “istantanee” vadano somigliandosi sempre di più nel corso degli anni.

Domenico Bilotti

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