PIANETA AMERICA: Il mio “ nine eleven “ , un buco nero e la forza cieca di Polifemo

L'illusione della sicurezza ottenuta con la forza delle armi.

HOUSTON, Texas – Quel mattino Miss Prince entro' pallida ed agitata nell'aula della scuola privata di Houston nella quale insegnavo. Mi disse che c'era in corso un attacco contro il nostro paese e che gli studenti dovevano prepararsi immediatamente per essere mandati a casa. Qualcosa di non ben precisato stava succedendo a New York. In quel momento, in contemporanea , tutti i network televisivi ne stavano facendo la cronaca. La giovane preside aggiunse che i genitori degli studenti si stavano precipitando da noi lasciando le case ed il lavoro, per venire a prendere e poter avere con se' i propri figli e, fu a quel punto, che cominciai a preoccuparmi.

Miss Prince, nonostante la figura esile, mi aveva sempre impressionato per la sua forza di carattere e per il suo autocontrollo decisamente anglosassone e, quello che vedevo in quel momento, era del tutto diverso e senza precedenti. Sembrava una persona che s'era svegliata durante il sonno a causa di un incubo. C'era un tremore quasi impercettibile nella sua voce e m'accorsi che il suo nervosismo inedito fu intercettato subito tra i banchi perché le ragazze ed i ragazzi cominciarono a scambiarsi sguardi allarmati mentre frettolosamente e rumorosamente iniziavano a preparare le cartelle. Nei corridoi si formarono le file degli studenti che si dirigevano verso l'uscita della scuola. I soliti buontemponi cercavano di distinguersi mostrando entusiasmo per l'insperata vacanza ma, intanto, cominciavano a giungere notizie più precise su quanto stava causando quella frettolosa evacuazione dell'istituto. A New York aerei di linea erano andati a schiantarsi contro le torri gemelle. Nel caos totale che attanagliava la grande mela una cosa rimaneva certa: non si trattava di un incidente, era un attentato terroristico, perché dopo lo schianto del primo aereo ne aveva fatto seguito ancora un altro.

Con la paura dipinta sul volto, o in alcuni casi con una forzata dimostrazione di calma i genitori, per la maggior parte donne, s'avvicinavano con i loro SUV e le loro auto davanti all'ingresso in fila, l'uno dietro l'altro. I ragazzi, aperte le portiere, balzavano dentro le auto e queste sparivano presto in fondo alla strada ad una velocita' decisamente piu' alta di quella solita e composta della circolazione urbana americana.

Il cielo terso di Houston, di quella giornata tragica e cosi' diversa dalle solite costituiva per me un contrasto troppo stridente e quasi insopportabile con l'enorme tragedia che intanto si stava consumando. Rientrato nella sala delle assemblee, dove nel frattempo s'era raccolto tutto il personale della scuola, eravamo come ipnotizzati dalle immagini che scorrevano su di un teleschermo, in attesa che anche noi ricevessimo l'autorizzazione di chiudere la giornata scolastica e di fare rientro a casa. Le scene terribili che s'alternavano senza fine ed inesorabili come i minuti di una lenta e terribile agonia facevano sorgere subito in me domande che fino ad oggi, puntualmente, tornano a riproporsi tutte le volta che qualcosa mi rimanda a quel giorno di settembre indimenticabile. Non si tratta del solito e scontato “dov'eri quando sono crollate le torri gemelle?”, non e' neppure “Cosa stavi facendo quando hanno lanciato l'attacco del 9 11?” e', invece, quel “Come e' potuto accadere?” che balzo' subito nella mente di molti Americani i quali, ancora oggi, e nonostante tutte le spiegazioni ufficiali, continuano a chiederselo.

Il buco nero che a New York, in pochi minuti, inghiotti' migliaia di vite umane, risulto' essere profondo ed oscuro non meno del baratro del dubbio che poi attanaglio' dolorosamente tutti mentre i terroristi, con folle determinazione riuscivano a colpire quelle stesse torri che già prima erano state fatte oggetto della loro attenzione carica d’odio e portatrice di morte.

Quello che per un americano era quindi più destabilizzante era costituito dalla constatazione che Bin Laden ed i suoi assassini alla fine c'erano riusciti. Ce l'avevano fatta, e nessuno in America aveva potuto impedire quella nuova Pearl Harbor. L'America era stata pugnalata al cuore nonostante il lunghissimo tempo richiesto dalla programmazione dell'attacco, nonostante le scoperte rivelatrici di alcuni elementi dell'intelligence rimasti inascoltati ma, specialmente, nonostante l'imponente apparto militare nazionale, rivelatosi inutile per vanificare quella tragedia ed utilizzato poi nella fase ormai tardiva della rappresaglia.

Fu necessario combattere due lunghe guerre che hanno aggiunto molte altre vittime americane a quelle dell'undici settembre ed hanno danneggiato la solidità e la sicurezza economica del paese. Alla fine, la chiusura parziale rappresentata dalla cattura e dall'uccisione di Bin Laden che, sfuggito sempre a Bush ed ospitato dall'alleato pachistano, e' stato seguito a ruota da altri capi, in analogia con quanto si verifica normalmente nelle monarchie, nel papato e nella mafia.

E' cambiato dunque qualcosa? E' vero, secondo quando ha affermato Dick Cheney, che gli Americani dopo aver portato la guerra in Irak ed in Afghanistan sono più sicuri? Se si tralasciano le domande inquietanti e rimaste senza risposta e si guarda semplicemente a quanto accade al confine col Messico, sconvolto apparentemente senza speranza dai signori della droga, sembra proprio di no.

Mentre i soldati vanno a combattere dall'altra parte de mondo, tra le sabbie roventi o tra le nevi, qui in casa da un confine meridionale ridotto nonostante i reticolati, i muri e l'alta tecnologia ad un colabrodo si riversa in America, a partire dagli stati del sud, un pericolo minaccioso non meno chiaro e non meno presente di quello terroristico.

In queste ultime ore, nonostante tutte le rassicurazioni, giungono da New York e da Washington notizie allarmanti che sembrano ipotizzare un nuovo attacco di Al Qaeda. Se portato a segno, nell'intento di celebrare col sangue l'anniversario tragico di New York, si tratterebbe di un nuovo schiaffo che verrebbe ad umiliare ancora una forza tremenda come quella americana, purtroppo inutile, perché posseduta da un gigante rivelatosi cieco come Polifemo. Secondo una leggenda che offre un insegnamento purtroppo sempre valido, basto' solo il piccolo ed astuto Ulisse a batterlo e ad umiliarlo e fu certamente allo scopo di dare una lezione di saggezza ai Greci, che il grande poeta Omero lo fece diventare il simbolo eterno dell'inutilità della forza cieca.

La vera forza, alla luce dei fatti tragici che hanno sconvolto l'umanità, e' invece quella data non dalle armi ma dalla pace e dall'amicizia tra i popoli. Secondo un noto proverbio “Chi e' ricco d'amici e' povero di guai” mentre chi e' odiato da molti nemici non e' nella condizione di stare tranquillo perché prima o poi, fatalmente, sarà colpito ed annientato.

E' quanto accadde nel corso della parabola discendente dell'Impero romano e, come e' facile capire, nessuno, neanche le potenze planetarie di prima grandezza, sono in grado di sottrarsi alle leggi ineludibili dei corsi e ricorsi della storia. Chiunque volesse un esempio capace d'avvalorare questa tesi potrebbe considerare la situazione di una nazione situata tra le montagne d'Europa: la piccola, ricca, sempre in pace e sempre neutrale Svizzera alla quale sono stati risparmiati gli orrori dei grandi conflitti mondiali e quelli di tutte le altre guerre più o meno grandi che a queste hanno fatto seguito .

RO PUCCI

09 / 09 / 2011

I-AM, HOUSTON, TEXAS

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